Farmaci per l’ipertensione? Vade retro

Troppe le prescrizioni inutili di farmaci antipertensivi. E con numerosi effetti collaterali, tra cui il più pericoloso è quello del cosiddetto “malore”, dovuto ad un calo pressorio improvviso. Il corpo, costretto ad una pressione artificiosamente bassa, cercherà sempre e comunque di ripristinare i valori a lui necessari. Rendendo necessario l’uso di un altro farmaco, poi di un altro e di un altro ancora.

Articolo tratto dal N° 135 – maggio 2024 L’Altra Medicina

TROPPE PRESCRIZIONI

Oggi è molto comune vedere ragazzi o giovani adulti che, per una minima distanza dai valori obiettivo di 120/80, ricevono prescrizione di uno o più farmaci antipertensivi, magari da mantenere per l’intera vita. Ne hanno davvero bisogno oppure dobbiamo prendere atto dell’esistenza di pressioni esterne di tipo commerciale? Per restare indipendenti dalle pressioni esercitate dal marketing delle aziende produttrici di farmaci, come medici dobbiamo chiederci, da un
punto di vista scientifico, quali siano i valori raccomandabili o desiderabili per la pressione arteriosa. E qui incominciano le perplessità. Mio padre, che oltre ad essere un noto anatomopatologo, esercitava anche la libera professione con i suoi pazienti, mi diceva (non nel 1900, ma negli anni 70-80 del secolo scorso) che una pressione sistolica corretta era all’incirca 100 più l’età del soggetto. Dato questo che, già in un uomo di mezza età, fa a pugni con i valori oggi normalmente ricercati di 120/80. Eppure i pazienti di mio padre stavano bene, si ammalavano poco, e se soffrivano per qualche patologia guarivano in tempi del tutto normali. Dunque come hanno fatto, in soli 30 anni, a determinare che siamo tutti malati, fissando il limite da non superare in modo così stretto? Dobbiamo forse sospettare che tutti i comitati scientifici coinvolti in queste decisioni siano proni al volere dell’industria (che fattura svariati miliardi in più ogniqualvolta restringiamo di
qualche punto il range di correttezza di un valore analitico)?

CAMBIARE PER GUARIRE

Benché vi sia qualche caso di grave scorrettezza, ritengo che la maggior parte dei consulenti che operano nei comitati sia in buona fede e ritenga davvero di tutelare maggiormente il paziente malato restringendo un po’ di più le maglie del sistema. Il problema mi sembra un altro: far capire sia al medico che al paziente che (anche ammesso che 120/80 sia il valore che consente una vita più lunga) non è e non potrà mai essere la stessa cosa avere naturalmente quei valori oppure indurli
con un farmaco
. Con un piccolo esempio tutto sarà più chiaro. Supponiamo di avere davanti un individuo iperteso, che ha alla base del suo problema un forte
eccesso nell’uso di sale (consumando molti salumi e formaggi, ed esagerando con i condimenti) e di zucchero (essendo goloso di dolciumi e biscotti), una forte ritenzione idrica, notevole sovrappeso, sedentarietà ed anche un po’ di agitazione psichica. Chi può seriamente pensare che la sua aspettativa di vita, dopo correzione dei valori pressori con un farmaco, sia identica a quella di un individuo che ha invece tali valori perfetti grazie al suo naturale equilibrio? Eppure in tanti,
anche se non lo esprimono esplicitamente, pensano così. “Caro il mio signore: lei ha la pressione alta. Prenda questa pastiglia, continui a ingozzarsi di pizza, salumi e formaggi, e non ci pensi più!”. A questo noi camici bianchi ci siamo ridotti: ad essere gli involontari pusher di aziende il cui principale obiettivo è quello di vederci tutti malati per poterci tutti acquisire come clienti.

UNA CURA CAUSALE

Se non vogliamo fare torto ai nostri studi di medicina prescrivendo solo una compressa, indipendentemente dalle cause, può essere una buona regola proprio quella di studiare i motivi più frequenti di innalzamento pressorio al fine di valutare insieme al paziente se vi siano comportamenti o stili di vita modificabili, per evitare di assumere una pastiglia. L’assunzione eccessiva di sale alimentare (ma anche gli zuccheri raffinati hanno il loro peso) sembra essere uno dei maggiori colpevoli dell’aumento dei valori pressori. A fronte di un fabbisogno ideale stimato intorno ai 2 g/die di sodio, l’italiano medio ne assume 6 e l’americano medio 12. Cioè da tre a sei volte il fabbisogno. Il corpo evidentemente reagisce in senso correttivo, cercando di diluire – trattenendo acqua – tutto quel sale, per mitigarne gli effetti neurotossici (ricordiamoci che il sodio, minerale indispensabile nelle giuste quantità, è un potente stimolante della reattività nervosa, e il suo eccesso può provocare molti danni, che vanno dalla tachicardia alle convulsioni epilettiche). Come sempre il corpo, di fronte ad un forte stimolo esterno, cerca di difendersi. L’accumulo d’acqua non serve solo a diluire il sodio, ma anche a predisporre l’organismo a liberarsi rapidamente, attraverso l’urina, del sodio in eccesso. Il correttivo della ritenzione idrica, ove lo stimolo sia limitato ad un’isolata assunzione esagerata, è anche la miglior cura del problema.

RITENZIONE IDRICA E CIBI SALATI

Purtroppo nell’alimentazione occidentale moderna l’assunzione di grandi quantità di sale è abitudine quotidiana, che comporta una situazione semipermanente di ritenzione idrica. La ritenzione non solo intossica i tessuti (cellulite, ipossia, infiammazione localizzata, edemi) ma, comprimendo con un maggior volume
il comparto vascolare che è sostanzialmente di volume costante, genera una maggiore pressione sulle pareti dei vasi, provocando, appunto, ipertensione. Un’ipertensione però che non dura 24 ore, ma perdura per tutto il tempo in cui continuiamo ad ingerire sale nascosto nei cibi. Ogni tanto qualche mio paziente, gonfio d’acqua come l’omino Michelin, e con la pressione altissima, mi giura che la saliera l’ha praticamente eliminata. Poi però, quando analizziamo le abitudini alimentari, scopriamo che fin dai biscotti industriali del mattino (un alimento ricchissimo di sale), la sua alimentazione è fatta di sale, sale, sale. A pranzo un
panino veloce con prosciutto e formaggio o una focaccia farcita, a cena, infine, dopo un aperitivo condito di olive, patatine, arachidi salate e salatini, una
bella pastasciutta (salare abbondantemente l’acqua di cottura, dice il libro delle ricette: ma perché? Se la saliamo appena o – come faccio io da anni – non la
saliamo del tutto, moriamo?) oppure un trancio di pizza. E questa sarebbe una dieta priva di sale?

MECCANISMI EVOLUTIVI

La domanda da porci, semmai, è per quale motivo ci sentiamo così attratti dal sale. Per quale motivo madre natura ha fatto sì che l’assunzione di sale rappresentasse per noi motivo di intenso piacere cerebrale, stimolando i nostri centri di reward? Il motivo è semplice: la nostra vita è uscita dall’acqua e prima che animali terrestri siamo stati rettili, anfibi, pesci. 

Renderci indipendenti dall’acqua che ci ha dato la vita (e dal suo sale) ha voluto dire, sulla terraferma, attivare dei meccanismi di ricerca attiva del sale stesso. Meccanismi particolarmente efficaci in un mondo privo di sale, in cui l’animale – erbivoro o carnivoro – deve trovare maggior gusto a consumare erbe contenenti più sodio o animali (pesci) più salati. Abbiamo sviluppato dunque non solo recettori gustativi specifici per il salato, ma anche, e soprattutto, circuiti di ricompensa per stimolarne il consumo. Vogliamo dunque supporre che, stante una situazione del genere, le aziende alimentari (e astuti cuochi di osteria) non approfittassero della situazione riempiendo di sale (e di zucchero, per cui valgono analoghe considerazioni) ogni alimento? Più sale, più gusto, più coazione ad assumere grandi quantità di quel cibo. E il dado da brodo (praticamente sale puro con un po’ di glutammato, altro componente “drogante” del nostro gusto e dell’eccitazione nervosa) viene ormai reclamizzato anche per rendere accettabile alla povera bimba della pubblicità il consumo di verdure cotte. In un’alleanza, forse non scritta ma presente nei fatti, tra produttori alimentari e produttori di farmaci. Se siamo tutti drogati di cibi “finti” e tutti ipertesi, le aziende alimentari e farmaceutiche aumentano a dismisura il loro fatturato. E chi siamo noi per rompere le uova nel paniere?

PRESSIONE E INFIAMMAZIONE

Una potente causa di ritenzione idrica (e quindi di aumento pressorio) è senza dubbio lo stato infiammatorio generale dell’organismo. Ad alcuni questo collegamento sfugge. Che c’entra l’infiammazione con la pressione? Il meccanismo non è difficile da comprendere. Allo stesso modo con cui il corpo si difende dall’eccesso di sale alimentare (diluendo il sale per ridurne gli effetti tossici), si difende anche da un eccesso di citochine (molecole segnale) infiammatorie. L’infiammazione, è bene ricordarlo, è un processo naturale volto a correggere e sistemare nel più breve tempo possibile un disagio, come una
ferita, un’infezione (febbre), un’intossicazione, una distorsione. L’infiammazione cronica, invece, nel perpetrare questo tentativo, può generare gravi danni uno dei quali, forse il minore, è quello della ritenzione idrica e del relativo aumento pressorio. Tra le cause dell’infiammazione cronica troviamo l’infiammazione da cibo: una branca relativamente nuova della medicina, che – prendendo spunto da considerazioni di tipo allergologico e immunologico – definisce come fonte di infiammazione lo stimolo ripetuto e reiterato di alcuni cibi che vengono assunti con tale quantità e frequenza che il nostro corpo non riesce più a tollerarne il carico. L’organismo infiammato fa un po’ come faremmo noi se il nostro vestito prendesse fuoco: ci butteremmo secchi d’acqua addosso nella speranza di spegnerlo. Un’esperienza clinica comune che sperimento nel mio studio è che i pazienti che iniziano ad effettuare una semplice rotazione alimentare sulle
famiglie di cibi più spesso implicate nel processo di sovraccarico (latticini, glutine, lievitati, sale, nichel) si sgonfiano d’acqua immediatamente o nel giro di poche settimane. Una semplice misurazione bioimpedenziometrica mi consente anche
di quantificare numericamente il dato. Troppo facile? Riduciamo ritenzione e pressione solo ruotando gli alimenti in modo intelligente? Mi dice un paziente, felice di avere stabilmente eliminato svariati litri d’acqua dal suo corpo: “Ma
perché non c’è l’ha mai detto nessuno che era così facile?”. Ecco una buona domanda per la quale, dentro di me, dispongo di alcune buone risposte. Le cause dunque possono essere molte ma se impediamo al corpo – per esempio con un farmaco – di correggere l’anomalia, non possiamo illuderci che la forzatura venga serenamente accettata. L’organismo tenterà in tutti i modi di ripristinare i livelli pressori che gli consentano tale correzione, e non si fermerà fino a che non li avrà nuovamente raggiunti. È qui che deve incominciare il lavoro del medico di segnale.

UN APPROCCIO SUPERFICIALE

L’approccio medico classico all’ipertensione è estremamente lineare. Dato che la pressione alta accorcia la vita, esponendoci ad un maggior rischio di eventi cardiovascolari, serve un farmaco per farla ritornare su livelli corrispondenti ad un
minor rischio. In relazione a questa ingenua consequenzialità, che ricorda un po’ i sillogismi assurdi con cui ci si divertiva al liceo studiando filosofia (se mi ubriaco, dormo; se dormo non commetto peccati; se non voglio commettere peccati devo ubriacarmi..), si dà per scontato che abbassare artificialmente la pressione con
un farmaco sia la medesima cosa rispetto all’averla naturalmente bassa
. Nulla di più errato e semplicistico. Ma quanti, oggi, mettono in discussione questo
paradigma, che tanto piace a chi i farmaci antipertensivi li commercia? D’altra parte è innegabile che tutti i dati scientifici (la cosiddetta EBM, evidence based medicine) mettono in luce come valori pressori bassi prevengano il verificarsi di eventi cardiovascolari. Se prendo cento persone con 120/80 e ne confronto
la mortalità con altre cento che hanno 160/100 è indubbio che il primo gruppo avrà minore mortalità cardiovascolare. Ma è tutto da dimostrare che prendendo le stesse cento persone con 160/100, e portando con farmaci la loro pressione a 120/80 (continuando a lasciare che si ingozzino di pizza, salame e gorgonzola), la loro mortalità si avvicini a quella di coloro che hanno naturalmente 120/80! Anche l’EBM, insomma, va considerata alla luce del buon senso, e all’interno del paradigma operativo che stiamo seguendo.

I DIURETICI NON RISOLVONO

I farmaci antipertensivi più antichi sono i diuretici. Quelli naturali (betulla, pilosella) sono stati ormai sostituiti da sostanze di sintesi come i potenti “diuretici dell’ansa” (furosemide), i più blandi tiazidici (idroclortiazide) o i “risparmiatori di potassio”
(amiloride). Costano poco e sono, in un primo momento, molto efficaci. In breve tempo, tuttavia, i recettori renali su cui agiscono si assuefanno al farmaco, che quindi non esercita più il suo effetto. Rimangono, però, gli effetti collaterali, ben descritti sui “bugiardini” delle confezioni. Va detto, inoltre, che il diuretico (pur utile in alcune situazioni ospedaliere di emergenza) in realtà forza una disidratazione che l’organismo (essendo stato lui a costruire la ritenzione) non vorrebbe. Il corpo dunque si opporrà con vigore a questa forzatura farmacologica, cercando di ripristinare la situazione precedente che lui stesso aveva generato. Se comunque il diuretico è assunto in eccesso, può generare ipotensione da disidratazione, che rallentando l’afflusso di sangue al cervello può provocare cadute o perdite di sensi improvvise dalle conseguenze anche gravi. Ricordiamoci sempre che se l’ipertensione uccide in 20 anni, una caduta può ucciderci in pochi secondi.

E TUTTI GLI ALTRI...

Esauriti i brevetti dei diuretici, l’industria ha ben presto spostato su nuovi principi attivi il compito di tenere bassa la pressione. Ed ecco arrivare sul mercato beta-bloccanti, calcio-antagonisti, ACE inibitori e sartanici

I beta-bloccanti agiscono, come dice il nome, bloccando i recettori beta dell’adrenalina. L’adrenalina, come già descritto, viene secreta in risposta ad un forte stimolo (paura, colpo di clacson, scivolone sul ghiaccio) e serve a reagire con immediatezza anche attraverso la vasocostrizione e l’aumento pressorio (che aumenta l’afflusso di sangue a cuore, muscoli e cervello). Il blocco dei recettori beta-adrenergici impedisce questa reazione naturale, tenendo bassa la pressione e con essa anche la nostra capacità di reazione agli eventi esterni. Il cuore risulta inoltre indebolito dal blocco dei beta-recettori: anche il muscolo cardiaco infatti risponde aumentando gittata e contrattilità grazie ad adrenalina e noradrenalina, e sotto beta-bloccanti la sua reattività diminuisce. 

I calcio-antagonisti fermano il meccanismo di vasocostrizione mediato dal calcio sulle pareti muscolari che avvolgono le arterie. Il calcio però è presente nell’organismo come attivatore di molti altri processi, che non si svolgono più come prima in presenza del farmaco.

ACE inibitori e sartanici agiscono bloccando (in punti diversi) la catena della vasocostrizione che parte dalla renina per approdare all’aldosterone. Questi farmaci oltre a provocare svariati effetti collaterali (come una tosse stizzosa nel caso degli ACE inibitori) hanno anche un forte impatto sui reni e devono essere assunti con molta prudenza dagli anziani o da chi abbia già problematiche nefrologiche come il lupus o altre patologie autoimmuni. Il rene svolge un ruolo centrale nella gestione dei picchi pressori. Se lo mettiamo fuori uso con un
antipertensivo, non abbiamo fatto un grosso affare
.

FARMACI CHE AMMALANO

Che dire dunque di rimedi che ci rendono sempre stanchi, lenti, poco reattivi e talvolta anche impotenti? I farmaci antipertensivi, bloccando la naturale
vasocostrizione, da un lato tengono bassa la pressione, dall’altro impediscono una corretta distribuzione del sangue a tutti i distretti cellulari
. La
vasocostrizione infatti ha una sua dannata utilità: spinge il sangue fin negli anfratti più remoti e manda sangue al cervello, alle punte delle dita, al pene o al clitoride quando questi devono gonfiarsi. Impedire questo naturale flusso può generare svenimenti, cadute improvvise, impotenza o anorgasmia, presenza di zone ipossiche (prive del necessario flusso sanguigno e del relativo ossigeno), perdite di coscienza, lapsus cognitivi, vertigini, confusione mentale. La perdita continua di potassio, tipica dei diuretici dell’ansa o dei tiazidici, può inoltre squilibrare il ritmo
cardiaco
fino alla fibrillazione: è il potassio infatti a bilanciare il sodio nell’alternanza di eccitazione e rallentamento del battito. Spesso poi, in breve tempo (da qualche settimana a qualche mese), l’effetto dei farmaci nei pazienti
trattati è completamente tamponato dall’organismo stesso il quale, avendo bisogno di quella pressione un po’ più alta (perché in sovrappeso, stressato, sedentario, infiammato o goloso di salsine, salumi e formaggi), si adopererà per ripristinarla attivando delle risposte uguali e contrarie al farmaco, fino a riportare i valori sui livelli idonei a irrorare con efficienza ogni cellula del suo corpo. Questo meccanismo – e pare impossibile il pensarlo – sfugge completamente ad un gran numero di medici i quali, preso atto del nuovo rialzo, invece di attivarsi a correggere le vere cause del rialzo pressorio, che cosa fanno? Aggiungono un
altro farmaco antipertensivo, magari con modalità di azione diversa, così da non sovraccaricare il sistema. Tale nuovo farmaco, ovviamente, farà la fine del precedente se non vengono contemporaneamente corretti i veri fattori del rialzo
pressorio. Si ha così la situazione paradossale di alcuni over-60 che assumono 4-5 diversi farmaci antipertensivi, uno prescritto dopo l’altro negli anni, dopo aver constatato l’annullamento dell’effetto dei precedenti. Farmaci che però non possono essere deprescritti pena un rialzo pressorio immediato, in quanto l’organismo si è attivato a rispondere in modo uguale e contrario. Mi è capitato di trovare pazienti che assumevano anche più di 5 farmaci diversi. Naturalmente da assumere fino alla morte senza interruzione. Devastati dagli effetti collaterali, permanentemente stanchi, privati anche del piacere sessuale (tranquilli: c’è il viagra..), costretti a prendere altri farmaci per l’emicrania (frequente in quelle
condizioni), per l’insufficienza renale (il rene è sovraccaricato dai farmaci), per la digestione (anche l’intestino va irrorato!), per il fegato, per i calcoli (effetto della disidratazione), per le vertigini, per i cali cognitivi. Ogni paziente, una miniera d’oro.
E per difendersi da eventuali rimostranze degli eredi (si chiama medicina difensiva: una delle bestemmie del mondo medico moderno) ciascun professionista, prima di togliere un qualsiasi farmaco prescritto da un collega, deve pensarci non
una ma cento volte.

UN MALORE

Il problema più grave però per gli anziani che assumono diversi farmaci per la pressione è il brusco calo pressorio legato a fattori contingenti (disidratazione, poca sete, caldo estivo, diarrea/vomito, febbre) di cui i farmaci non tengono
conto, continuando la loro attività di abbassamento forzato della pressione. Farmaci che talvolta hanno tempi di eliminazione renali doppi o tripli (nell’anziano) rispetto alla norma. Ciò significa dosaggi di principio attivo involontariamente doppi o tripli. In tali condizioni anomale l’afflusso di sangue al cervello diminuisce bruscamente, provocando confusione, vertigini, svenimenti.
Le conseguenze di uno svenimento o di una caduta con frattura in un anziano possono essere gravissime e portare alla morte. Quante “cadute” nell’anziano sembrano casuali (sa, l’età..) e sono invece conseguenza diretta di una ipermedicalizzazione cieca del problema? In questo pantano ci ha fatto finire una malintesa volontà di trattamento farmacologico di una patologia che dovrebbe invece essere affrontata modificando con forza ed efficacia il proprio modo di
pensare e il proprio stile di vita. Se riusciremo a liberarci dalle pressioni commerciali dei produttori e a valorizzare invece i fattori di stile di vita in grado di normalizzare i nostri valori pressori avremo fatto un passo importante per la tutela della salute nostra e dei nostri pazienti.

Picture of Luca Speciani
Luca Speciani

Medico Chirurgo
Presidente AMPAS (Medici di segnale)

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Luca Speciani

Medico Chirurgo
Presidente AMPAS
(Medici di segnale)