Le neuroscienze sono sempre più interessate alle pratiche meditative. Sembra proprio che, molto tempo fa, il sofisticato pensiero buddhista sia giunto ad elaborare tecniche la cui efficacia la scienza sta ora confermando. Vediamo una delle ultime novità.
La nuova indagine* è stata condotta dagli scienziati della University of California, di Davis, e dalla scuola di medicina della Johns Hopkins, Baltimora. E’ necessaria una premessa.
La capacità di concentrarsi è fondamentale per rendere efficienti le nostre attività fisiche e intellettuali, in particolare quando si tratta di apprendere o gestire situazioni complesse in vista di un obiettivo. Concentrarsi vuol dire saper controllare la nostra attenzione che, come sappiamo, tende a spostarsi da un oggetto o pensiero all’altro. A volte poi, l’attenzione si spegne senza che ce ne rendiamo conto e andiamo in automatico (noi pensiamo di essere ugualmente efficienti ma non è così). Per questo – nel lavoro, nello studio o nello sport – è importante riuscire ad ottenere quella che si chiama “stabilità attentiva”.
La natura fluttuante dell’attenzione è ben conosciuta dalla tradizione buddhista, che nel tempo ha messo a punto una serie di tecniche per coltivare la stabilità dell’attenzione (prestando, per esempio, attenzione alle sensazioni corporee e al respiro). Ecco perché i neuroscienziati americani si sono interessati alla meditazione Vipassana. Per loro è anche un modo per comprendere come funziona il cervello.
Ma come misuriamo questi effetti sull’attenzione? Gli scienziati hanno usato diversi parametri come la “Variabilità dei tempi di reazione” durante una performance (più variano meno è stabile l’attenzione), oppure la “Accuratezza nell’inibizione della risposta” (che riflette la capacità di distinguere tra due diversi stimoli senza sbagliare). Si tratta di test in continuo sviluppo.
Che cosa è emerso?
Basta un mese di meditazione Vipassana intensiva per migliorare in modo consistente i parametri dell’attenzione rispetto a chi non si sottopone alla pratica. Inoltre, dal punto di vista soggettivo, le persone coinvolte si sentivano più concentrate rispetto al mese precedente, e senza percepire un aumento dello sforzo o della motivazione.
Il commento degli autori e il concetto buddhista di “Samatha”
Spiegano gli autori: «Presi insieme, i nostri risultati supportano l’idea che la meditazione Vipassana faciliti una gestione efficiente delle risorse relative all’attenzione e ciò si accompagna a cambiamenti esperienziali nella percezione della stabilità attentiva e della chiarezza mentale. Questo si riflette in variazioni misurabili della performance sensoria e motoria. Inoltre, questi benefici sull’attenzione si verificano in assenza di incrementi dello sforzo o della motivazione auto-percepita».
E’ stupefacente osservare il grado di raffinatezza, raggiunto dal canone buddhista, nella descrizione dei meccanismi mentali legati all’attenzione. Con il termine “samatha” si indica la pratica indirizzata a calmare la mente, prerequisito essenziale per ottenere la concentrazione. Si tratta in realtà di più pratiche, una delle quali è stata rivelata dal Buddha e consiste nella consapevolezza del respiro (anapanasati). Samatha si compone, a sua volta, di 9 stadi, come per esempio samsthapana (l’attenzione continua). Nel sistema buddhista la calma non è solo associata alla concentrazione mentale ma va ben oltre: solo in questo modo, infatti, il praticante può superare i 5 ostacoli che impediscono di progredire nella meditazione e nel processo di liberazione.
Zanesco AP et al. Front Hum Neurosci 2013; 7: 566
*http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3776271/