Il termine “resilienza” è stato introdotto in italiano passando dall’inglese “resilience”, a sua volta derivante dal latino “resiliens -entis”, participio presente del verbo “resilire”: “saltare indietro”, “rimbalzare”. Da cui il significato, originariamente riservato alla fisica dei materiali, di “assorbire un colpo, senza subire deformazioni permanenti”. Successivamente il termine ha visto estendersi il suo significato a altri ambiti, tra cui quello psicologico, all’interno del quale è oggi diventato di moda.
Ma davvero un essere umano può – e soprattutto dovrebbe – limitarsi a “assorbire il colpo” e tornare semplicemente a essere quello di prima? Non sono forse le esperienze di vita che ci forgiano e non è piuttosto da esse che possiamo imparare a essere migliori? La comprensione e la successiva integrazione di un qualsiasi evento ci consentono di conoscere meglio noi stessi, di crescere e di apprendere. Come si può limitarsi a elogiare la supposta virtù di chi, indifferente a quanto avviene perfino a se stesso, invece che integrare e superare l’esperienza, ritorna allo stesso grado di consapevolezza che aveva prima?
Una cosa è la capacità di rimanere imperturbabili, cioè di “non essere turbati e saper conservare in ogni occasione il controllo e la tranquillità d’animo”, che è rara conquista di un riuscito lavoro di consapevolezza; ben altra è la caratteristica di ritornare alla condizione precedente a un evento, dal quale in tal modo si finisce, come un materiale appunto, col non apprendere niente. L’apprendimento è infatti, per definizione, “l’acquisizione di nuovi modelli di comportamento, o la modifica di quelli precedenti”. Tornare alla condizione precedente comporta invece la perdita dell’opportunità di imparare dalla nostra storia e, di conseguenza, aumenta anche il rischio che la storia si ripeta.
Sempre ammesso naturalmente che, per un essere umano, sia davvero possibile tornare davvero alla condizione precedente a un trauma ricevuto. Più probabile è semmai che, mentre a livello cosciente si tenta di ignorare l’evento (rinunciando così alla possibilità di un suo vero superamento), la ferita permanga a livelli più inconsci e lì, proprio perché non riconosciuta, col tempo generi le più varie problematiche. Un po’ come avviene col noto esempio del nascondere la polvere sotto il tappeto invece che aspirarla via.
Per altro, la resilienza potrebbe anche forse essere auspicabile nei confronti di questioni di poco conto, ma come si può invece desiderarla in reazione a eventi epocali? Oggi, in tempi cosi bui in cui i governi minacciano e ricattano i propri concittadini, la risposta alle avversità subite non può e non dove essere la resilienza, bensì è necessaria la resistenza.
Ma cosa vuol dire resistenza? Il termine viene dal latino “resistere”, composto di “re”, che conferisce idea di opposizione e di “sistere”, da “stàre”, tratto dell’antica radice sanscrita “sthā”, col senso originario di “essere fermo, saldo”. Anche l’accezione psicologica di questa parola deriva dalla qualità di un materiale (che non cede a una forza esercitata su di esso), tuttavia in questo caso l’immagine non è quella di un passivo “rimbalzare indietro”, bensì quella offerta dalla migliore definizione che ne ho trovato: “opporsi saldamente nei confronti di qualcuno o di qualcosa, mantenendo saldamente la propria posizione”. Se poi aggiungiamo il significato associato alla Resistenza, con la maiuscola, diviene ancora più chiara l’immagine di un baluardo da difendere dall’assedio di forze ostili perché, se esso dovesse capitolare, la disfatta sarebbe totale e le scorrerie del nemico non avrebbero più freni.
Trovi l’articolo completo del dott. Benedetto Tangocci sul numero 115 de L’altra medicina.