La corretta costruzione del microbiota intestinale, nei primi anni di vita, è di fondamentale importanza per porre le basi di salute del futuro adulto.
Articolo tratto dal N° 100 – L’Altra Medicina
Introduzione
Diversi studi epidemiologici hanno stabilito una correlazione tra i fattori che alterano il microbiota intestinale durante la prima infanzia e alcuni disordini immunitari e metabolici che si svilupperebbero successivamente nella vita adulta (3 – 5). Ciò implica che il microbiota intestinale moduli precocemente fattori di rischio i cui effetti si paleserebbero anche a distanza di anni (6), ma soprattutto offre a noi operatori strumenti di comprensione e PREVENZIONE troppo
importanti per essere trascurati. Comprendere i naturali processi che modellano il microbiota intestinale quindi, ci permetterebbe di interagire con essi poiché lo sviluppo e la maturazione del
microbiota neonatale è un processo affatto casuale e il consorzio microbico della mamma, soprattutto quello orale, intestinale e vaginale, sono fondamentali per la costruzione dell’eredità di salute e
malattia della prole.
Come evolve e quali processi lo modellano?
Poiché la composizione del microbiota intestinale, a distanza
di alcuni anni dalla nascita, appare simile nei diversi bambini,
si ritiene che esso giochi un ruolo influente in età neonatale
molto precoce. Infatti è nei primi tre anni di vita che ci giocheremmo le carte migliori ed è durante questa finestra che fattori di vario genere mostrerebbero segni importanti sulla composizione del microbiota che poi andrebbero attenuandosi con lo svezzamento.
La prevenzione precoce attraverso il microbiota
Un interessante studio pionieristico del 2006, analizzando una popolazione di 1032 neonati, individuò correlazioni tra composizione del microbiota rispetto sia a condizioni perinatali sia post-natali.
Tra le prime, oltre alla genetica familiare e all’età della madre, avevano un peso rilevante lo stato metabolico della stessa, l’eventuale assunzione di farmaci nonché la dieta e lo stile di vita. Tra i post-natali spiccavano l’età gestazionale, il tipo di parto, il tipo di allattamento nonché l’uso di antibiotici (o altri farmaci) e la permanenza in strutture nosocomiali. Da sottolineare che una robusta
campagna di prevenzione potrebbe modificare la maggior parte di queste variabili. Le modalità del parto sono forse la variabile più
studiata (8), dove il passaggio attraverso il canale vaginale consente il contatto del neonato con il microbiota vaginale e fecale materno, da cui ne risulta una corretta colonizzazione intestinale neonatale da parte dei microbi associati a questi habitat. Tra essi i Lactobacillus, (9; 10) a cui si somma il consorzio intestinale materno ricco di
Bifidobatteri, Bacteroidetes (Bacteroides fragilis) e Proteobacteria (Escherichia) (11). Nel meconio (materiale contenuto nell’intestino del feto. È sterile e presenta un colore bruno-verdastro, di consistenza vischiosa e viene emesso nei primi giorni di vita del neonato) di neonati partoriti con taglio cesareo i lactobacillus appaiono scarsi,
suggerendo che essi provengano principalmente dal microbiota vaginale e rettale materno durante il parto vaginale (19). Invece i bambini che nascono con parto cesareo non sono esposti direttamente ai microbi materni e quindi hanno maggiori probabilità di essere colonizzati da microrganismi ambientali (pelle della mamma, dello staff ospedaliero o nosocomiale) (12 – 15). A quattro giorni il microbiota intestinale del bambino nato da TC (taglio cesareo) somiglia di più a quello normalmente presente sulla cute mentre il bimbo nato da parto spontaneo condivide la somiglianza con quello vaginale materno (16 – 18). Queste conoscenze hanno incentivato l’approccio noto come vaginal seeding (semina vaginale) che consiste nello strofinamento delle mucose oro-nasali del neonato con una garza contaminata con materiale vaginorettale della madre (20). Benché questa pratica possa apparire promettente, non tutti concordano sulla sua innoquità poiché la mamma può offrire
la sua ricchezza microbica ma anche i suoi batteri sgraditi e potenzialmente pericolosi. La nascita con TC è stata associata a un aumentato rischio di disordini immunitari e metabolici. Tra
essi l’obesità, l’asma (23), l’allergia (24) e le malattie autoimmuni tra cui il diabete di tipo 1 (25). In questi ultimi è presente un pattern disbiotico intestinale abbastanza peculiare e sovrapponibile a quello
conseguente l’assunzione di antibiotici (26). Come nelle allergie, anche nei disordini metabolici il ruolo dei bifidobatteri è importantissimo. Maggiore è il numero di bifidobatteri e minore è il rischio di sviluppare un fenotipo obeso e allergico. Eppure alla luce di quanto esposto dovrebbero triplicarsi gli sforzi per evitare il ricorso al
Taglio Cesareo ma ancora adesso in Italia una donna su tre partorisce
con questa modalità, mentre in Europa la media è di una su quattro. Tutti i ginecologi, a parole, si dichiarano contrari al suo uso indiscriminato eppure i dati ufficiali dicono il contrario. “Nel 2016, il 33,7% dei parti è avvenuto con taglio cesareo”, mentre secondo l’OMS la quota non dovrebbe superare il 15%, con enormi differenze territoriali, al punto che regioni come la Campania hanno registrato
quasi due parti su tre (65,4%). Quando i neonati nascono prima della 37a settimana si definiscono pretermine e poiché spesso presentano problemi che comportano la necessità di trattamenti farmacologici, lunghi periodi di degenza, alimentazione artificiale o parenterale,
si possono sommare importanti interferenze con la formazione di un microbiota intestinale sano. Non solo, c’è un altro aspetto importante: durante tutta la gravidanza il corpo della donna subisce importanti modificazioni che accompagnano le nuove richieste del feto prima e del neonato dopo. Tra queste, di rilevante importanza, quelle che
riguardano il microbiota, non solo intestinale, ma di tutti gli habitat corporei che mostrano specifiche funzionalità (33). Infatti, in gravidanza l’intestino materno si trasforma in chiave infiammatoria e ciò consente una rapida curva di crescita e accumulo di adipe nella mamma, in previsione dell’allattamento, e per la crescita del feto (aumento dei microrganismi pro-infiammatori e riduzione di quelli
anti-infiammatori). Diversi studi hanno riportato differenze di colonizzazione nell’intestino dei neonati in base all’epoca gestazionale di nascita, con livelli significativamente più alti di microrganismi patogeni (opportunistici) mentre Bifidobacterium
e i Bacteroides appaiono più scarsi (36 – 39). Inoltre, in gravidanza anche il microbiota vaginale subisce progressive modificazioni, con un importante incremento di Lactobacillus (che aumentano
in funzione dell’età gestazionale), una maggiore stabilità del microbiota vaginale (minore alfa e beta-biodiversità) e meno presenza di batteri a potenziale comportamento patogeno (Mollicutes)
(34, 35). Il microbiota prematuro appare diverso non solo nella composizione ma primariamente nella funzionalità. Per esempio gli acidi grassi a catena corta (SCFA), prodotti dal microbiota intestinale,
sono presenti a concentrazioni inferiori nei campioni fecali di neonati prematuri (43) ed essi hanno molteplici compiti biologici insostituibili nel nostro organismo. Così come vi sono differenze nelle vie metaboliche, nell’espressione di geni legati alla biosintesi di cofattori e vitamine, alla biodegradazione xenobiotica e di quelli correlati
al metabolismo energetico e lipidico, funzioni che molto dipendono dalla disponibilità dei geni dei batteri che ospitiamo. Infine le patologie più temute nel bambino prematuro, come l’enterocolite necrotizzante (NEC) e la sepsi, parrebbero fortemente correlarsi con la composizione del microbiota intestinale propria del neonato pretermine (41, 42). Fatte queste considerazioni ricordo che
oggi un bambino su dieci nasce prematuramente (infatti vi è stato
un aumento del 30% negli ultimi 35 anni). Se da un lato questo esprime un miglioramento dell’assistenza pre e perinatale, dall’altro sappiamo che esistono esposizioni ambientali e stili di vita, assolutamente modificabili, che ne giustificano questo vistoso
incremento. Per esempio una dieta materna con consumo frequente di latte e scarso di verdure durante la gravidanza parrebbe associarsi a un aumento delle probabilità di parto prematuro. Uno studio condotto in Indiana dalla University School of Medicine, ha concluso che l’aumento delle nascite premature negli Stati Uniti risultava
significativamente correlato all’incremento dell’uso di pesticidi e nitrati in agricoltura e con effetti molto simili a quelli riscontrati in donne fumatrici. Eppure non è stato fatto nulla per contenere l’inquinamento ambientale così come molte donne continuano a fumare anche in gravidanza (14% delle donne in gestazione), mentre un bambino su sette di madre fumatrice nasce prematuro. Stesso
problema si presenta anche nelle gravide obese: più aumenta il peso della donna, prima e durante la gravidanza, più aumenta il rischio di parto pretermine. Tra le varie ragioni che mettono a rischio
queste gravidanze sicuramente compare anche la qualità del microbiota di queste pazienti. Anche l’alimentazione infantile rappresenta un elemento modificabile molto importante. L’allattamento al seno fornisce non solo nutrimenti, ma
anche immunoglobuline, batteri, ormoni ed è per tutti questi motivi che si ritiene insostituibile. Quando si prosegue l’allattamento oltre lo svezzamento il significato non è più quello di “nutrire” il bambino bensì di passare a esso: informazioni, microbi e protezione immunologica. Le differenze nella composizione microbica intestinale tra i bambini allattati al seno e quelli alimentati con formule sono ben documentate (44), con elevati livelli di Bifidobatteri
tra i primi ma non tra i secondi. L’allattamento materno fornisce un mix di nutrienti, agenti promicrobici e antimicrobici, che favoriscono
lo sviluppo di un “microbiota orientato al metabolismo del latte”. Nella donna, durante l’ultimo trimestre di gravidanza, i ceppi di bifidobatteri cominciano ad aumentare perché dovranno traslare, attraverso il latte materno, al neonato; diversi autori ipotizzano un meccanismo simile anche durante la gravidanza con la complicità della placenta. Sia durante la gravidanza sia l’allattamento è stato dimostrato un imponente fenomeno di permeabilizzazione
delle membrane mucose, ormono dipendente, il cui scopo è quello di favorire la traslocazione dei batteri dalla mamma al feto e quindi al neonato. Attraverso questa via, ci sarebbe l’approvvigionamento di bifidobatteri dalla mamma al neonato. Inoltre, avrebbe lo scopo di indurre “tolleranza” immunologica fetale e poi successivamente neonatale verso un pool di batteri fondamentali per il metabolismo feto-neonatale. Questa prima dotazione microbiotica è definita NATIVE CORE MICROBIOTA e rappresenta un patrimonio
personale che rimane abbastanza stabile nella vita adulta poiché è con questi batteri che in fase precocissima siamo entrati in contatto generando tolleranza immunologica (47): come dire, “impariamo
a conoscerli e a riconoscerli come amici”. Nell’adulto i bifidobatteri (actinobatteri 0,1-0,5%) scompaiono, o quasi, per essere poi sostituiti da altri batteri che digeriscono i beta-glucani della mucina
(Verrucomicrobia tra cui Akkermansia muciniphila). Invece nel bambino i bifidobatteri arrivano a rappresentare dieci batteri su 100 (10%) perché qui svolgono molteplici compiti, tra cui la modulazione
del sistema immunitario, riequilibrano gli effetti di un eccesso di Gram negatività fisiologica nel microbiota neonatale (circa il 30-50% contro il 2,5– 3% di un adulto sano), ma soprattutto digeriscono
gli zuccheri del latte materno. Questi ultimi sono raggruppati nella dicitura di HMO (Human Milk Oligosaccharides) del latte materno che ne contiene oltre 200 tipi e a loro volta modellano la crescita e
la funzione del microbiota (50). Gli HMO materni nell’intestino del neonato impediscono ai germi patogeni di farsi largo, rafforzano il sistema immunitario in crescita e probabilmente sono coinvolti anche
nello sviluppo del cervello. Probabilmente non sono d’aiuto solo al bambino, ma anche alla madre. Infatti parrebbe che proteggano il seno materno dall’infezione, dal cancro ma anche dal tumore del
collo dell’utero. L’assenza di Bifidobatteri nell’intestino neontale (per esempio allattamento artificiale, la mamma senza bifidobatteri nell’intestino, terapia antibiotica), come già accennato prima, predispone all’obesità e all’asma nel futuro adulto, soprattutto
se si accompagnasse a carenza di Enterococcaceae (anch’esse trasmesse dalla mamma).
È stato dimostrato che i bambini alimentati con latte artificiale presentano una varietà microbiotica intestinale maggiore (51). Ma se la biodiversità nell’intestino di un adulto costituisce un parametro di salubrità, perché significa una varietà metabolico-funzionale più robusta, nel bambino piccolo, viceversa, appare più importante la super specializzazione concentrata sulla presenza di bifidobatteri e lattobacilli, che hanno un ruolo specifico in questa delicata fase di maturazione (52; 53). La ragione di questa maggiore biodiversità del neonato allattato con formula è conseguenza proprio della maggiore varietà di nutrienti e batteri con cui entra in contatto e che causano diversi pattern di colonizzazione microbica dell’intestino (54). Allo svezzamento il microbiota di tutti i bimbi vira progressivamente verso una composizione simile a quella di un adulto, diventando più stabile e complesso (56; 57).
A completamento della carrellata su tutti i fattori post-natali più significativi che influenzano composizione e salubrità del microbiota della nostra prole sono da menzionare i farmaci e in particolare gli antibiotici. Negli anni si sono moltiplicate le segnalazioni dell’interferenza tra assunzione di antibiotici e genesi microbiotica, con drammatica riduzione della biodiversità, dei probiotici (64) e di specie particolari come il Bacteroides fragilis (60). Quest’ultimo parrebbe dirigere lo sviluppo di Foxp3 (+), sottogruppo di cellule T regolatorie (Treg), responsabili dell’immunosoppressione e quindi della tolleranza immunologica (61). Ma è stato anche dimostrato che i microbi producono chemiochine con specifici effetti sui linfociti (tra cui i Natural Killer) coinvolti nei fenomeni allergici, di autoimmunità e di infiammazione intestinale (IBD). Colpire quindi aspecificamente con un antibiotico i nostri batteri commensali potrebbe rivelarsi molto pericoloso. Diversi studi, inoltre, mostrano un’associazione diretta tra esposizioni ad antibiotico e suscettibilità alle infezioni (che aumenterebbe di sei volte nel mese successivo), alle allergie e all’obesità infantile (63). L’età in cui si assumono, la durata e la dose, nonché il tipo di antibiotico, sono fattori variabili molto importanti. Il primo anno di vita esprime una finestra molto delicata così come l’assunzione di macrolidi, che hanno mostrato d’avere un impatto molto maggiore rispetto ad altri, sulla biodiversità del Microbiota, che può durare anche fino a quattro anni dall’assunzione. Non solo, basse dosi assunte nei primi anni di vita sono state correlate a cambiamenti citochinici cerebrali e comportamentali in modelli murini (65). Uno Studio pubblicato nel 2003 sul B.M.J. ha dimostrato come l’uso di antibiotici, nel caso di tonsilliti streptococciche in età pediatrica, , sia superflua ma in compenso potrebbero bastare tre cicli di antibiotici prima dei due anni
per predisporre all’obesità (67; 68): a dimostrazione del fatto che la genesi dell’obesità è strettamente correlata alla composizione del microbiota. Del resto ricordiamoci che gli antibiotici sono utilizzati
negli allevamenti anche per stimolare l’aumento di peso e lo stesso effetto sembra verificarsi nell’uomo. Inutile ricordare che si ricorre relativamente di frequente alla terapia antibiotica in corso di gravidanza, durante il parto o dopo la nascita. Individuare
strategie alternative per ridurre queste evenienze ai soli casi necessari sarebbe già un buon punto di partenza. Per esempio una adeguata alimentazione, associata a un supporto pro e prebiotico in gravidanza, appaiono promettenti per interferire sia primariamente sul microbiota materno (intestinale e vaginale) sia quindi su quello feto-neonatale.
Recentemente, è stato osservato che la composizione microbica fecale
del bambino è fortemente influenzata dal BMI e dall’aumento di peso della madre durante la gravidanza (70). Le concentrazioni di Bacteroides e Staphylococcus fecali si sono dimostrate significativamente più elevate, contrariamente ai Bifidobatteri,
nei neonati di madri sovrappeso durante i primi sei mesi di vita (71), ma del resto nell’intestino di una donna obesa è presente quella stessa disbiosi che concorre allo squilibrio endocrino-metabolico.
Benché sia ancora discussa l’esistenza del “microbiota placentare”, il team della Dott.ssa Aagaard ha rilevato che un eccesso di peso in gravidanza si assocerebbe a cambiamenti significativi nel microbiota
placentare (78) e infiltrazione macrofagica placentare, da cui una maggiore incidenza di parto pretermine. Ricordiamoci comunque che la dieta, in generale, ha ampiamente dimostrato di modulare
il microbiota materno e quindi comprensibilmente quello feto-neonatale. Molto più suggestivo invece è il potenziale trasferimento
materno-fetale di microbiota durante la gravidanza, la cosiddetta trasmissione verticale. Sebbene il primo massiccio incontro di un neonato con il microbiota sia considerato postnatale, vi è
l’ipotesi della presenza di un microbiota placentare e fetale (48). Un numero crescente di prove scientifiche ha fornito indicazioni sulla presenza di batteri nella placenta, nel cordone ombelicale, nel liquido
amniotico e nel meconio in gravidanze sane (90). L’esposizione microbica potrebbe iniziare prima del parto, consentendo così la colonizzazione del feto con pionieri precoci che derivano dal microbiota materno. Per altri autori invece, pur ammettendo
l’assenza di sterilità, la presenza di diversi batteri non indicherebbe conferma di una vera e propria flora microbica organizzata
ma solo di transitorie occupazioni (91). La placenta ospiterebbe un
microbioma unico che comprende batteri della vagina, del tratto urinario, della cavità orale e di altre regioni del corpo, ma secondo la Dott.ssa Kjersti Aagaard, che sta lavorando al Progetto Microbioma Umano, la maggiore somiglianza sarebbe con il microbiota della cavità orale (95). Complessivamente, questo indica che l’intero tratto digestivo materno, cioè dalla cavità orale al retto (lattobacilli), svolga un ruolo chiave nella colonizzazione feto-placentare (96, 97). Le scoperte di Aagaard di un presunto microbioma placentare
non sono un evento isolato (102), tuttavia esisterebbero anche prove oppositive all’esistenza di una trasmissione verticale. Infatti un certo numero di ricercatori rimane profondamente scettico. Le tracce di microbi placentari sostengono siano “kitomi”, cioè batteri contaminanti i kit di estrazione del DNA usati nella ricerca, mentre Di Giulio e colleghi hanno sottolineato che la valutazione dei
potenziali microbi nei siti a così basso contenuto di biomassa microbica (102/ml) sono particolarmente inclini a risultati confondenti, per cui potrebbero essere interpretati come “rumori di fondo” cioè contaminazioni casuali (110). Riguardo all’isolamento di DNA da materiale fetale, i critici, sostengono che materiale nucleare non equivalga a un batterio vitale ma può anche appartenere
a microrganismi morti. Infine ancora non è chiaro se i batteri isolati, siano transuenti o vivano moltiplicandosi nel feto, considerato che comunque l’utero non è sterile. Ma la prova più convincente
che un microbioma fetale non esisterebbe pare fornircela
MG Dominguez-Bello. Topi da laboratorio privi di batteri (GermFree) sono ottenuti attraverso la loro estrazione con taglio cesareo, come a dire che non ci sarebbe una contaminazione significativa
precedente (Anche se il numero di articoli a sostegno dell’esistenza
di un microbiota feto-placentare sta crescendo, alcuni scienziati la respingono energicamente. Sono in corso studi che potrebbero
rispondere alla domanda una volta per tutte e c’è chi paragona la controversia sul microbioma della placenta a una “lotta scientifica con i coltelli”. Ma se i microbiomi fetali esistono, ciò potrebbe avere
implicazioni di vasta portata. “Se iniziamo a pensare alla placenta come a un conduttore o facilitatore della comunicazione materno-fetale e non come una barriera, allora penso che ci apriamo
a prospettive molto interessanti”, dice Kjersti Aagaard (Baylor College of Medicine, Houston, Texas) (112). Non solo il microbiota fornisce una quantità enorme di geni. Si calcola che per ogni Gene parentale ereditato ve ne sarebbero 99 di derivazione microbica. Come si può pensare che questo patrimonio genetico non abbia un ruolo
anche nella embrio e fetogenesi? E d’altro canto tutte le specie animali, compreso l’uomo, possiedono microbi in utero ed è quindi poco credibile che essi non svolgano un ruolo nella procreazione.
“Saremmo l’unica specie in cui ciò non avviene”, dice Susan Lynch (microbiologa Università della California, San Francisco).
Conclusioni: i margini di opportunità
I primi 1000 giorni di vita dovremmo percepirli come “A CRUCIAL WINDOW OF OPPORTUNITY” cioè una finestra di opportunità durante la quale possono essere adottate misure in grado di preservare o “migliorare” il microbiota del bambino. Durante questo periodo, infatti, il microbiota del futuro adulto è in divenire, presenta cioè quella instabilità che ci permette d’interferire per plasmarlo
verso la sua ottimizzazione. Ma altresì, rappresenta uno spazio temporale di enorme vulnerabilità che va protetto. In questa ottica, diventa anche imperativo occuparsi del microbiota delle giovani
donne in età fertile e di quelle in gravidanza per poter migliorare la salute delle generazioni future. Purtroppo oggi la prevenzione appare sempre più come la parente povera nel percorso della medicina
e l’alimentazione, mentre gli stili di vita non occupano quel posto di privilegio che spetterebbe loro per il ruolo primario che hanno nel determinare una vita libera da malattie.

Monica Perotti
Medico di segnale e coordinatrice dieta GIFT Emilia Romagna.

Monica Perotti
Medico di segnale e coordinatrice dieta GIFT Emilia Romagna.