Se abbiamo qualche dubbio sulla nostra situazione glicemica,
di solito effettuiamo una visita diabetologica. È un ottimo intento. Peccato che molte volte capiti di uscire dall’ambulatorio con una dieta peggiore di quella che già stavamo seguendo. Perché la formazione nutrizionale dei medici è carente e spesso ci si appoggia ad altre figure che sottostimano la presenza di zucchero negli alimenti.
Ecco un’altra puntata su come è (e come invece dovrebbe essere) una “normale” visita specialistica.
Articolo tratto dal N° 142 – L’Altra Medicina
NON SOLO GLICEMIA
Quando ci viene il sospetto che la nostra glicemia sia fuori posto (o
l’esame stesso della glicemia superi gli intervalli di tolleranza) ci
viene suggerito di effettuare una visita specialistica diabetologica. Che peraltro non sempre è necessaria, visto che l’esame della glicemia può essere falsato da molti fattori, tra cui la pizza della sera prima, la colazione del mattino o anche l’arrabbiatura per il parcheggio
o per il traffico prima del prelievo. Un dato sicuramente più affidabile per valutare uno squilibrio glicemico è quello dell’emoglobina glicata,
che valuta la “dolcificazione” di una proteina molto comune (l’emoglobina), la cui vita media all’interno dei globuli rossi è di due-tre mesi. Un’emoglobina glicata (o un’albumina glicata, detta anche fruttosamina, ancora più precoce) dà un’idea del livello glicemico molto più prolungata nel tempo rispetto alla semplice glicemia.
In ogni caso, di fronte a qualche segno di iperglicemia, e magari ad una predisposizione familiare, il medico di medicina generale inizia a
proporre una terapia o indirizza direttamente dal diabetologo.
MEDICI NUTRIZIONALMENTE PREPARATI?
Che sia il medico di base o il diabetologo a seguire il paziente, la domanda da porci è se costoro siano preparati a elaborare e seguire da un punto di vista nutrizionale la dieta necessaria a far rientrare i parametri fuori posto. Perché se tale competenza non c’è, è evidente che la cura si concentrerà sui soli farmaci. Che è poi ciò che primariamente interessa all’industria che li produce, che finanzia poi gli studi scientifici sul diabete, e che sponsorizza le società scientifiche di diabetologia affinché emanino linee guida e protocolli che – lungi dall’essere efficaci – riempiano di farmaci il malcapitato paziente.
Ogni potenziale diabetico dovrebbe ricordare che gli studi di base di medicina non prevedono alcuna preparazione né di tipo nutrizionale (se si esclude qualche cenno nell’esame di biochimica del secondo anno) né relativa all’efficacia terapeutica del movimento fisico.
Un po’ poco, mi pare, per due aree che rappresentano per il diabetico o l’iperglicemico i più potenti mezzi curativi oggi esistenti. I medici dunque sanno di nutrizione e di movimento in relazione al loro personale investimento privato, e non grazie ad una regolare formazione scolastica. Il che mi pare molto grave, soprattutto
in relazione alla documentata incapacità di qualunque farmaco di fermare la progressione a diabete.
CHI SONO DIABETOLOGO, MEDICO DI BASE, DIETISTA
Il medico di medicina generale ha compiuto gli studi di base e poi ha fatto il corso di abilitazione triennale. Ha il compito di intercettare
con competenza ogni patologia indirizzando poi allo specialista di turno il paziente. Anche prima della crisi Covid i medici di base
(trasformati in burocrati da leggi che li hanno obbligati a fare spesso i passacarte) avevano però una media di tempo-visita per paziente di tre minuti. Ora, con la fuga di migliaia di medici all’estero o in pensionamento anticipato, le cose stanno ancora peggio. Un po’ poco, tre minuti, per prescrivere dieta e movimento (ammesso che lo si sappia fare). C’è il tempo appena sufficiente per prescrivere della metformina, o qualche nuovo pericoloso magico ritrovato farmacologico. Per il piacere dei produttori, che vedranno da quel dì in avanti il paziente diventare cronicamente dipendente da quel farmaco. Mentre il paziente, a causa delle fuorvianti indicazioni ricevute, riterrà, grazie a quello, di poter continuare a bere
impunemente cappuccini zuccherati, brioches, bevande colorate e gelati.
Il diabetologo invece è un endocrinologo che si occupa principalmente di diabete. In teoria dovrebbe conoscere molto bene i meccanismi nutrizionali sottesi all’iperglicemia. In realtà nella prassi
comune riceve il paziente, prescrive dei farmaci antidiabetici e poi indirizza il paziente alla dietista dell’ospedale, perché – lo si deduce dai fatti – da solo non è in grado (o forse non lo reputa di alcuna importanza) di prescrivere una dieta efficace. Tanto c’è il farmaco ad agire.
E la dietista chi è? Il titolo di dietista è frutto di una laurea breve triennale successiva al diploma che lo autorizza a prescrivere diete “solo” su indicazione del medico. E qui nasce il problema perché talvolta le diete che vengono prescritte sono tutto tranne che antidiabetiche. E la prescrizione di movimento, in assoluto il più
potente farmaco antidiabetico, è sempre sistematicamente assente.
LINEE GUIDA CORRETTE?
In realtà le linee guida per iperglicemia e diabete dicono con chiarezza (sebbene in poche sintetiche righe) che prima di pensare a qualunque intervento farmacologico, occorre lavorare sullo stile di vita. Probabilmente medici e dietisti danno per scontato che, in un mondo dominato dalle false informazioni delle lobbies dolciarie, sia praticamente impossibile riuscire a convincere le persone a seguire
una dieta senza zuccheri aggiunti. E dunque via con i farmaci.
Ma non sarebbe invece opportuno una volta tanto quelle poche righe seguirle? Di fatto che cosa succede nella pratica? Mille volte mi è capitato di sentire mie pazienti in gravidanza che venivano costrette dal ginecologo a fare il cosiddetto “test da carico di glucosio”. Un test assurdo in cui si costringe una povera donna incinta ad assumere 75 g di glucosio in pochi minuti (il corrispettivo di due lattine di bevanda gassata o di 12 caffè zuccherati uno in fila all’altro), senza considerare
minimamente l’impatto di tale “abbuffata” su insulina, infiammazione, equilibri ormonali. Le mie pazienti, già abituate ad un regime GIFT ovvero del tutto privo di zuccheri aggiunti, hanno
ovviamente un innalzamento glicemico brutale (un po’ come se costringessimo un astemio a ingerire un litro di Vodka tutto d’un fiato), col risultato che il ginecologo le spedisce subito dal diabetologo. Il quale, come da copione, le indirizza poi dalla dietista. E lì inizia il cinema. Perché o la formazione del dietista è insufficiente, o la pressione delle aziende dolciarie è esagerata.
Forse entrambe le cose. Ma è possibile che le diete prescritte prevedano colazione con i “Pavesini”, piuttosto che con gli “Oro Saiwa”? Giuro ne ho viste più d’una. A parte il cattivo gusto di scrivere la marca (cos’ha di più un pavesino rispetto a una gocciola o a un grancereale?), ma come può una dieta per il diabete prevedere l’uso di biscotti, che contengono – se va bene – il 30% di zucchero puro e il 30% di farina bianca raffinata e industriale? È come se ad un fumatore accanito, con un cancro ai polmoni, venisse prescritto
di respirare nel box dal tubo di scappamento! Di questo io faccio colpa al diabetologo, ancor più che al dietista impreparato. Perché il diabetologo, prima di tutto, deve conoscere cosa sia una dieta
antidiabete (e quanto incida il movimento sulla glicemia). Poi, se vuole, può demandare al dietista la spiegazione di dettaglio secondo le proprie indicazioni. Queste pazienti così maltrattate poi mi scrivono dicendo: “Ma dottore, devo seguire le indicazioni della dietista o posso continuare con la dietaGIFT che mi pare molto più in grado di controllare l’iperglicemia?”. Anche un muratore con la terza elementare capirebbe che con i biscotti non si controlla la glicemia.
Perché non lo capisce il diabetologo?
PERSONE, NON TITOLI
Non volendo fare di tutte le erbe un fascio occorre ricordare che esistono medici di base, diabetologi e dietisti meravigliosi, ma che purtroppo queste cose succedono troppe volte per poter essere catalogate come frutto del caso, o di qualche mela marcia che
invece di dare gli esami andava in discoteca. Si tratta infatti di una struttura sanitaria che culturalmente impedisce di approfondire le correlazioni tra patologie e stili di vita, per concentrarsi unicamente sulla soppressione farmacologica dei sintomi e sulla cronicizzazione del malato metabolico, che diventa così non più persona ma produttore di fatturato farmaceutico e ospedaliero. Se non viene insegnato al medico (che dovrebbe rappresentare il punto più alto nella competenza verso le patologie) a fare uso di strumenti potenti
ed efficaci come il movimento fisico regolare e un’alimentazione priva di zuccheri, come pensare che tutti gli altri, a cascata, non si adeguino? Poi gli ordini professionali si lamentano perché la gente comune si rivolge ai vari Panzironi o agli influencer sui social, privi di qualunque titolo che li abiliti a prescrivere diete. Ma (e lo dico da medico) se la controparte di medici e biologi continua a proporre
la decotta dieta mediterranea (della cui struttura originale con pesce e verdure si è ormai persa traccia), o le ignobili diete ipocaloriche col “velo di marmellata” o il “pavesino”, forse il comune mortale non ha poi tutti i torti a volgere la testa altrove.
MEDIA CORROTTI
Ascoltavo qualche giorno fa una trasmissione RAI che parlava male
di diete online in cui i pazienti erano finiti in ospedale a causa di regimi assurdi ipocalorici, di digiuno, vegani o iperproteici, a seconda della moda del momento. Il conduttore si scagliava contro la mancanza di titoli di questi consulenti, raccomandando a tutti di farsi
seguire solo da medici o da biologi nutrizionisti abilitati a prescrivere diete. Giusto e sacrosanto. In studio però una di queste “vittime”, alla domanda su chi l’avesse mandato in ospedale, risponde candidamente che si trattava di un medico dietologo tra i più quotati. Il conduttore, in visibile imbarazzo, passa allora la parola ai filmati esterni, in cui un poveretto, obeso, è stato massacrato da un servizio di diete online in cui gli facevano mangiare solo proteine da mattina a sera. Con chi parlava, chiede l’intervistatrice? Sempre solo con biologi nutrizionisti. Evviva! Il problema quindi non è il titolo, che pure conta ed è premessa fondamentale per essere ben seguiti, ma serve anche che chi elabora una dieta abbia poi le basi biochimiche nutrizionali, l’esperienza e le conoscenze scientifiche necessarie a
scegliere un regime che, nel tenere sotto controllo la glicemia, sia in grado anche di non procurare danni a chi la segue. Primo: non nuocere. In un’edicola inglese ho visto un cartello appeso davanti ai giornali che diceva pressapoco: “attenzione, il contenuto di questi giornali non è in alcun modo rappresentativo delle varie opinioni
in campo, ma riporta le idee e le convinzioni di un gruppo di miliardari che possiede queste testate. Se volete un’informazione più affidabile, basatevi su altre fonti”. Ecco: analogo cartello dovrebbe essere esposto fuori dalle Università e prima di ogni trasmissione
televisiva che tratti di farmaci, di medicina, di diabete. Perché gli interessi in gioco sono tanti e solo con una medicina non condizionata è possibile pensare di elaborare cure e terapie a vantaggio del paziente. È un passo culturale importante, che affonda le sue radici nella libertà di scelta di cura del paziente e nella libertà di
scelta terapeutica da parte del medico. La prossima volta che avremo
bisogno di cure, per qualsiasi patologia, proviamo a ricordarcelo.
Luca Speciani
Medico Chirurgo
Presidente AMPAS (Medici di segnale)
Luca Speciani
Medico Chirurgo
Presidente AMPAS
(Medici di segnale)