Il nostro apparato digerente è un tubo lungo da 4 a 7 metri lineari e con una superficie complessiva, comprendente pliche, villi e microvilli, che va dai 200 ai 1000 metri quadrati a seconda delle interpretazioni dei diversi autori. Il confronto con i 2 metri quadri circa di pelle deve farci riflettere. Perché la pelle e l’intestino sono i due apparati che ci pongono in contatto con il mondo esterno.
Il tubo digerente di fatto è “ambiente esterno”, nel senso che ogni mammifero è più o meno fatto come una “ciambella col buco”. Il canale che va dalla bocca all’ano, infatti, processa continuamente e instancabilmente materiale estraneo (il cibo), che – con l’aiuto dei microbi intestinali – deve leggere, sterilizzare, detossificare, smontare e indirizzare nel modo più efficiente, in modo da trarre da esso energia e informazioni. Il nostro microbiota intestinale è infatti uno dei protagonisti di questo complesso di operazioni ed è nostro preciso dovere proteggerlo.
Non meno importanti sono alcuni annessi all’apparato digerente: ghiandole salivari, fegato, cistifellea, pancreas. Solo con il loro concorso (e con quello del sistema linfatico e delle componenti immunitarie dell’apparato) è possibile una piena e completa digestione di ciò che abbiamo ingerito.
L’intestino dunque non si limita a smontare ciò con cui viene a contatto, ma nel senso più esteso ne legge un contenuto informativo attraverso il quale riceve dei segnali che orientano la sua attività immunitaria, la sua scelta di accumulare o consumare scorte, la maggiore o minore attivazione di sistemi di detossificazione, o il maggiore o minore utilizzo di sangue, di enzimi, di forza di contrazione. Tutte queste complesse attività vengono svolte attraverso l’azione del cosiddetto “sistema nervoso enterico” un vero e proprio secondo cervello in grado di operare in modo quasi del tutto indipendente dal primo che tutti conosciamo.
Il cervello enterico tende a mandarci segnali solo quando è in difficoltà, e “là in basso” succede qualcosa che non riesce ad equilibrarsi da solo. Sentiamo “la pancia” infatti, prevalentemente quando fa male. Finché tutto va bene, ce ne dimentichiamo completamente e la lasciamo senza un “grazie” a svolgere i suoi preziosissimi compiti.
Non c’è da stupirsi, dunque, se anche nel parlare comune una situazione scabrosa ci dà il “mal di pancia” o se una brutta esperienza viene riferita come “un pugno nello stomaco”
Di Luca Speciani, tratto dalla sezione lettere del numero 126 de L’altra medicina.