Curare il cuore o riempirlo di farmaci?

La deprescrizione farmacologica è oggi un dovere per qualunque medico che
si renda conto della situazione nella quale siamo costretti ad operare. Le linee guida sono sviluppate da società scientifiche gravate da pesanti conflitti di interesse, e gli ordini lavorano da “gendarmi” vigilando sul rispetto di protocolli spesso lontanissimi dall’avere un’accettabile efficacia curativa.

Articolo tratto dal N° 140 – ottobre 2024 L’Altra Medicina

SCIENZA O LINEE GUIDA?

Non è infrequente oggi imbattersi in pazienti che – ancora ingenuamente
fiduciosi nel sistema – assumono 15-20 farmaci diversi, la metà dei quali inutili o dannosi. Durante il delirio pandemico, per porre un argine alla disumanizzazione delle pratiche mediche e per proteggere medici e pazienti dalla complicità delle
istituzioni verso gli abusi dell’industria farmaceutica, medici coraggiosi hanno cercato di operare in scienza e coscienza, senza seguire raccomandazioni
governative prive di senso. Il percorso è stato fin qui denso di ostacoli, ma si
sa: gutta cavat lapidem, e noi cercheremo quella pietra di perforarla con le nostre tante gocce di buona medicina, ancora in grado – a differenza della nuova medicina soppressiva e difensiva – di salvare vite, di consolare, di guarire. L’ambito
cardiologico è uno di quelli che meglio si presta a questo tipo di analisi.

E GLI STILI DI VITA?

Se è giusto indagare con gli strumenti avanzati di oggi le alterazioni dei parametri cardiovascolari (frazioni d’eiezione, flussi transvalvolari, valori di pressione, alterazioni del ritmo, ecc.), è anche vero che questi parametri, pur indispensabili nell’indagine e nella cura, devono essere sempre letti in modo integrato e riequilibrati anche e soprattutto con lo stile di vita, la psiche, l’alimentazione, le attitudini al movimento dell’individuo, unico e inimitabile, oggetto delle nostre cure. Senza questa integrazione nessuna cura può essere risolutiva. Ricordo quando subito dopo la mia laurea in Medicina e Chirurgia fui mandato in tirocinio per un certo periodo al centro cardiologico Monzino, alle porte di Milano: una realtà di eccellenza sanità lombarda dove si lavorava a ritmo continuo all’inserimento di stent coronarici, sotto guida radiografica, in pazienti cardiopatici dalle arterie occluse o in via di occlusione. Il ritmo di lavoro era frenetico: la sola vestizione protettiva antiradiazioni richiedeva tempi lunghi,
e per tutta la mattina si operava a ritmo serrato un paziente dopo l’altro. Nel pomeriggio andavano compilati i referti operatori, andavano dimessi i pazienti operati e andavano predisposte le ammissioni di quelli nuovi per le operazioni del giorno successivo. Non mancava solo il tempo di fare dettagliate anamnesi o adeguate spiegazioni sugli stili di vita nutrizionali e motori, necessari a non ricadere negli stessi errori che avevano portato all’occlusione: mancava proprio il tempo per respirare! E infatti pazienti disostruiti con grande perizia e cura dai fantastici chirurghi del Monzino, tornavano tre mesi dopo con nuove ostruzioni perchè nessuno aveva avuto il tempo di dire loro che magari fumare, essere sedentari in forte sovrappeso e vivere di bomboloni, forse non era il modo giusto
per stare meglio.

UNA MEDICINA A MISURA D'UOMO

Ecco, questo tipo di medicina non potrà mai essere la nostra. Resterà sempre una medicina gradita ai grandi ospedali (che saranno sempre pieni di lavoro) e alle grandi aziende farmaceutiche (che rendono ogni paziente consumatore cronico di farmaci, con la scusa delle linee guida delle società di specialità), ma non a noi. Fare una medicina a misura d’uomo, come mi ha insegnato mio padre Luigi Oreste, significa invece lavorare prima di tutto sulla prevenzione (con alimentazione e stile di vita) e in seguito, preso atto di una situazione patologica,
intervenendo secondo il bisogno con farmaci e chirurgia in modo individualizzato (non necessariamente secondo linee guida), e mettendo poi in atto tutti quegli interventi individuali necessari a prevenire il ripetersi del problema. Durante il tirocinio in Medicina interna all’ospedale Sacco di Milano, mi ricordo di aver contestato l’uso di una statina su una povera minuscola signora sarda che aveva 75 (!) di colesterolo totale. La solerte specializzanda, già allora fedele seguace
di direttive aziendali e timorosa di sanzioni ordinistiche o legali, mi fulminò “con occhi di bragia” e mi disse che lì si seguivano le linee guida, e che non mi sognassi io di discuterle. Chi ha avuto un infarto deve assumere statine. Punto. Perché
(anche se poi talvolta muore di più per cause diverse) la “scienza” dice che si riducono di una piccola percentuale i casi di morte cardiovascolare (non però, come ormai spiegato da numerosi lavori, le morti complessive!). Dedurre che forse ciò potesse avvenire su coloro che il colesterolo ce l’avevano più alto era troppo
per quella collega, che – come da formazione universitaria recente – riteneva evidentemente che le linee guida imposte dalle società di specialità asservite
a questo o quel produttore, non potessero essere mai messe in discussione.
Non si era accorta, però, che aveva così rinunciato a svolgere il proprio lavoro di medico. Che o resta libero e indipendente nel giudizio, nella diagnosi e nella terapia, o non può più chiamarsi tale.

SENZA CAUSE NIENTE CURA

Mio padre diceva spesso: “Guarda Luca che la guarigione di un paziente non si ha mai solo quando spariscono i sintomi. La guarigione si ha quando il paziente ha compiuto quel passo di saggezza necessario a non riammalarsi più”. In questa frase non vi è solo un concetto caro alla medicina di segnale (ma condiviso con le tradizioni PNEI, di medicina funzionale, di medicina integrata), cioè quello di lavorare sulle cause delle patologie, cercando ove possibile di rimuoverle.
Vi è anche (attraverso il concetto di “passo di saggezza”) l’integrazione, nelle cause, di un elemento psicosomatico. Non basta rimuovere l’occlusione arteriosa, ancorché sia indispensabile. Serve poi lavorare a fondo sugli aspetti di stile di vita (cattiva alimentazione, fumo, sedentarietà) che l’hanno generata, senza trascurare gli aspetti psicosomatici che sono sempre, ma davvero sempre, presenti. Come ha detto una volta Baltrusch: “La medicina o è anche psicosomatica o non è medicina”. L’approccio farmacologico e riduzionista tanto gradito all’industria, non è gradito né dal corpo, né dal paziente.

TUTTI IPERTESI, TUTTI MALATI

Un esempio molto semplice e chiaro è quello che riguarda l’ipertensione arteriosa. Che da anni è oggetto di trattamenti farmacologici sempre più
aggressivi, dovuti a range di “normalità” sempre più stretti stabiliti, guarda caso, da società scientifiche in grave conflitto di interessi con i produttori di questa classe di farmaci. Lo scandalo ha indotto Fiona Godlee, editorialista del BMJ (non certo un’adepta di discipline sciamaniche) a chiedersi se con questi nuovi limiti
l’obiettivo del sistema sanitario inglese non fosse diventato la “mass medication” di tutti gli anziani. Di fatto anche in Italia, ormai, non vi è settantenne che non venga in visita con il suo bel sacchetto pieno di farmaci, tra cui le onnipresenti statine e 3-4 diversi antipertensivi. La medicina di segnale rileva invece che il valore di pressione arteriosa esistente in un individuo rappresenta il punto di equilibrio raggiunto per minimizzare il danno, a fronte della specifica situazione:
∙ di età (e rigidità) delle arterie
∙ di maggiore o minore occlusione delle stesse
∙ di maggiore o minore densità del sangue
∙ di lunghezza dei percorsi di irrorazione (che aumentano per esempio nell’obeso o nell’atleta)
∙ di maggiore o minore funzionalità renale
∙ di presenza o assenza di fumo
∙ di maggiore o minore funzionalità valvolare ∙ di maggiori o minori necessità di attivazione surrenale
∙ di maggiore o minore idratazione.

Fissati tali parametri la pressione sviluppata (come insegna Guyton) è quella minima sufficiente ad irrorare ogni più remoto distretto cerebrale, consentendo
la piena attivazione fisica e mentale richiesta. Poiché tuttavia una situazione permanente di ipertensione arteriosa può generare danno endoteliale e predisporre ad occlusioni, trombi, infarti e ictus, il medico “ordinario” tenderà a correggere tempestivamente con un farmaco qualunque valore pressorio alterato, perché così gli è stato insegnato in Università, sotto la guida di docenti spesso
ubbidienti a regole imposte dall’alto, che non prevedono altro tipo di intervento diverso da quello farmacologico.

VERSO LO SCOMPENSO CARDIACO

I nuovi studenti, purtroppo, non avranno avuto, nel programma base della facoltà, alcuna informazione precisa sugli effetti curativi di alimentazione e movimento sui valori pressori. Argomento totalmente assente, se non per vaghi cenni, tra le
materie base di medicina (provare per credere: chiedete ad un neolaureato la correlazione tra picchi glicemici e riposta ipertensiva mediata da cortisolo
e adrenalina in fase di ipoglicemia reattiva e otterrete – salvo rare eccezioni – confusi balbettìi). Se dunque il momento ipertensivo, causato da una o più delle tante cause sopraccennate, viene contrastato da un farmaco, foss’anche il più efficace al mondo, il risultato inevitabile sarà una riduzione funzionale con conseguente inefficiente irrorazione di alcuni distretti cerebrali o periferici.
Fino a che la mancata irrorazione riguarda dita, pene, arti inferiori, le conseguenze saranno marginali (mani e piedi freddi, disfunzioni erettili, rapido affaticamento). Quando però la riduzione di irrorazione riguarderà il cervello, e il sistema nervoso
in genere attraverso i minuscoli vasa nervorum, ecco che il cuore risponderà alla limitazione farmacologica con un tentativo attivo di compensazione, ovvero aumentando, se ne è capace, la frequenza del battito (tachicardia), la frazione di
eiezione e, in ultima analisi, ancora la pressione. Che dovrà però lavorare “contro” il farmaco, ottenendo, ma con maggiore sforzo, il risultato che otteneva prima.

NON UNA MA MOLTE VERITA'

È chiaro a chiunque ci abbia seguito in questo discorso che un cuore così condizionato sarà prima di tutto più affaticato e in secondo luogo si avvicinerà
in un minor numero di anni allo scompenso cardiaco. Questo esempio serve a farci ragionare sul fatto che una soluzione farmacologica raramente prolunga
la vita
. Anzi, talvolta l’accorcia. Ma in un mondo governato ormai dai capricci dell’industria farmaceutica, è molto difficile riuscire a ripristinare un’informazione corretta che dia il giusto peso alle esigenze del paziente, anche quando queste
non aumentino il fatturato. Medici che operano secondo il ventaglio di possibilità
della cardiologia di segnale hanno a disposizione un numero di frecce nella faretra molto più ampio rispetto a chi, talvolta con grande arroganza e ascientificità, ritiene di avere in tasca la sola e unica verità. Tanti, troppi medici ancora non hanno compreso il significato di una medicina al servizio dell’uomo, antitetica rispetto al concetto di uomo al servizio della medicina. Integrare e allargare le proprie esperienze e conoscenze per curare sempre meglio i nostri pazienti
è un obiettivo che può costruire un medico con la M maiuscola. E può creare pazienti che, invece di avere un rapporto di schiavitù e dipendenza da farmaci, siano invece finalmente partecipi del proprio processo di guarigione, consapevoli del fatto che prevenire è mille volte meglio che curare.

Picture of Luca Speciani
Luca Speciani

Medico Chirurgo
Presidente AMPAS (Medici di segnale)

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Luca Speciani

Medico Chirurgo
Presidente AMPAS
(Medici di segnale)