Quanto sono importanti le nostre radici?
Avere delle radici familiari significa ricordare il valore delle vite di chi ci ha preceduto, che spesso ha sacrificato la propria libertà o la propria vita per proteggere figli e nipoti.
Chi è cosciente di questo valore, chi capisce l’importanza delle radici, non potrà mai accettare riduzioni di libertà o costrizioni di pensiero ideate da “ominicchi” privi di radici, e gonfi solo di narcisistica autostima e di ambizione ad arricchirsi.
Non perdiamo mai il rapporto con le radici
Un giorno ho letto di una persona disperata per la perdita precoce dei propri genitori che si chiedeva dove fossero andati e in che modo potesse sentirli in qualche modo vicini.
Questa persona aveva cercato in ogni modo un contatto attraverso sedute spiritiche, medium, incontri con religiosi, ma nulla pareva dare consolazione.
Osservando le proprie mani però, notò che le dita erano proprio identiche a quelle di suo padre e che in fondo, guardandosi allo specchio, non poteva non notare che il suo sorriso ricordava in modo marcato quello di sua madre.
In questi momenti capiamo l’importanza delle radici e ci rendiamo conto che i nostri genitori non muoiono mai.
Ci rendiamo conto che le nostre radici faranno sempre parte della nostra vita.
Una parte di loro rimane indelebilmente impressa nella nostra fisicità, ma anche nei nostri pensieri, nei nostri valori, nelle esperienze che abbiamo vissuto con loro.
Le nostre radici sono sotto i nostri occhi. Ne siamo il frutto e la naturale continuazione.
Prenderne coscienza è un pensiero forte, che può aiutare a orientare le nostre vite nei momenti più difficili e duri.
L’importanza delle mie radici
Ho avuto un padre medico, Luigi Oreste, coautore con Abba e Tono del piano nazionale antitubercolosi, e che qualcuno considera ancora uno dei fondatori della medicina psicosomatica in Italia.
I lettori de “L’altra medicina” hanno imparato a conoscerne la profonda cultura e l’incredibile preveggenza nei capitoli de “L’uomo senza futuro” pubblicati mese per mese in questi due-tre anni.
È morto in circostanze non chiare, a soli 62 anni, mentre stava organizzando a Milano un grande congresso contro gli abusi della chemioterapia dal titolo “Cancro: perché?”.
Per inciso il gruppo “concorrente” legato all’industria farmaceutica della chemioterapia, il cui uomo immagine era Umberto Veronesi (all’inizio degli anni ‘80 va ricordato che la lotta per acquisire il monopolio farmaceutico delle cure sul cancro era in pieno svolgimento), aveva guarda caso organizzato nella stessa Milano un convegno di grande rilievo proprio negli stessi giorni, non appena saputo di “Cancro: perché?”.
Mio padre si era laureato in medicina combattendo in Albania, in Francia, in Montenegro, con i libri nello zaino, che qualche volta gli è toccato tornare a recuperare dietro le linee nemiche.
E la sua pratica medica è incominciata in trincea, prima che nei letti di un ospedale.
Là dove l’aspetto umano non poteva essere mai trascurato.
Ho avuto una madre, Maria Pia, laureata in biologia in anni in cui le donne laureate erano davvero poche, che ha cresciuto 7 figli e circa 35 nipoti, passando in mezzo al fascismo, ad una guerra mondiale, al ‘68, al divorzio, all’aborto, a tangentopoli.
Il papà di mio padre, di cui porto il nome (Celeste), era carabiniere e ha servito lo Stato con onore ed onestà, dissanguandosi per consentire al figlio Oreste di studiare medicina.
Sua moglie, la mia amata nonna Ida, era di Scannabue (CR), paese che dicono di “matti”.
E forse quel quarto di follia che alberga in tutti noi di famiglia viene da lì, proprio da quelle radici.
Una follia sana, che ci fa sentire diversi dalle tante, troppe pecore obbedienti.
Il papà di mia madre, Ugo Pratolongo, è stato un grande scienziato in campo agrario. Tra i suoi molti libri, alcuni riguardanti gli enzimi, nei primi decenni del secolo scorso, hanno fatto scalpore.
La sua vita non è stata facile. Suo padre (e mio bisnonno) Pietro, medico condotto di cui gelosamente conservo appunti di medicina del 1875, morì a soli 36 anni in un’epidemia di tifo. Perché all’epoca i malati si curavano di persona, non dietro il plexiglas. Con le erbe e i minerali, non con tamponi, paracetamolo e vigile attesa.
Orfano a 5 anni, dunque, il nonno Ugo fu tirato su con fatica fino alla sudata laurea dalla mamma (mia bisnonna) Pia, che da vedova si mise a studiare da ostetrica per garantire il pane a lui e al suo fratellino.
Perché – direte voi – racconto tutto questo? Lo racconto perché sia chiaro a quei quaquaraquà che giocano con il nostro diritto al lavoro, alla salute, alla vita per squallidi interessi economici e politici, che possono inventarsi ancora mille restrizioni, prigioni, trattamenti obbligatori, tessere naziste o cinesi per sottometterci, ma che NOI non ci sottometteremo mai…
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