L’ipotiroidismo è pari al 4,6 % nell’intera popolazione considerata nello studio NHANES III, condotto su oltre 17 000 abitanti degli Stati Uniti negli anni 1988-1994.
Questo studio ha inoltre chiaramente dimostrato che la grande maggioranza degli ipotiroidismi riscontrati è rappresentata in realtà da forme sub-cliniche (93% dei casi), cioè pauci-sintomatiche e caratterizzate biochimicamente dalla sola elevazione del TSH. Solo una minoranza degli ipotiroidismi riscontrati risulta invece clinicamente significativa (0,3% della popolazione) e in particolare caratterizzata dalla elevazione del TSH e dalla riduzione di FT3 e FT4 (Hollowell et al. 2002).
In ampi studi effettuati su popolazione dei paesi occidentali con sufficiente iodio nella dieta, l’ipotiroidismo manifesto è stato rilevato nello 0,3-0,4% degli individui. Tra costoro, più del 90% ha un livello di TSH al di sotto della soglia dei 10 mIU/l che è considerata come la soglia per il trattamento (Garber et al. 2012). I bambini con ipotiroidismo subclinico, spesso recuperano la normale funzionalità tiroidea e solo una piccola percentuale sviluppa una forma clinica (Fatourechi 2009).
Le donne hanno maggiori probabilità di soffrire della condizione rispetto agli uomini. Negli studi di popolazione, le donne hanno dimostrato di avere sette volte più la probabilità, rispetto agli uomini, di presentare livelli di TSH superiori a 10 mU/l. Ogni anno, tra il 2 e il 4% delle persone con ipotiroidismo subclinico progredirà a ipotiroidismo conclamato. Il rischio è maggiore nei pazienti con anticorpi antiperossidasi tiroidea (antiTPO).
Il numero delle persone veramente candidabili al trattamento nella popolazione è dunque molto contenuto. Perché è invece così diffusa la tendenza al trattamento?
Trovi l’articolo completo del dott. Luca Speciani sul numero 113 de L’altra medicina.