Cosa significa avere delle radici
Come si vive in un paesello di campagna dove tutti sanno tutto? cosa significa veramente avere delle radici e quanto sono importanti?
In un paesello si vive in modo sicuramente più onesto e pulito, con possibilità di scambio culturale e umano ormai sconosciuto agli aggregati urbani più grandi. Per penetrare, tuttavia, questa realtà serve tempo, ed essere “radicati” nel cuore pulsante della comunità in cui si vive, può fare la differenza.
Quando uno vive a Torino, a Firenze, a Palermo, esce di casa la mattina, prende un caffè al bar, ritrova la sua macchina tra le cento parcheggiate, va al lavoro o per i fatti suoi. Vede un sacco di gente, si secca perché le strade sono troppo affollate, sbircia una bella biondina, guarda come procedono i lavori sulla facciata del duomo.
Tutto normale? No. Se abitate come me in un micro-paesino di mezza montagna, sicuramente non vi capita mai di incontrare folle di ignoti, e se vedete una faccia sconosciuta probabilmente è il figlio del Pierino che si è tinto i capelli di azzurro. Andate al bar, e lì trovate un piccolo ma solido campionario della popolazione.
C’è un passaggio di questo genere in Proust, nella Strada di Swann. Il Narratore, ragazzetto, va a passeggiare per il paese, incontra gente ‘che non conosce’ e lo racconta alla zia Leonia. La vecchietta si turba moltissimo, e chiede agli altri familiari: ma davvero? Gente sconosciuta in paese? Ma no ma no, la rassicura il nonno, era lo zio del Tale e la nuora del Talaltro. E il Narratore viene ammonito: attento a parlare di sconosciuti, che la zia si impressiona.
Che faccia aveva il tuo bisnonno? Conosci le tue radici?
Qualcosa di analogo è capitato a mio figlio ragazzino, in una scorribanda in paese dopo una lunga assenza. Il giovincello torna a casa un po’ stranito – benché certo meno cagionevole del Narratore – e racconta: ero lì che facevo footing sulla strada verso il bosco, incrocio un tizio mai visto né conosciuto che mi guarda ben bene e poi dice, io conoscevo il tuo bisnonno. La cosa non manca di interesse perché neppure noi conoscevamo quel bisnonno, defunto quando suo figlio (il nonno) era un bimbetto.
I legami di sangue, di contiguità e di vicinanza in paese sono forti, e arrivano lontano. Vai in una far- macia ampiamente fuori zona, la fanciulla al banco registra la tua tessera sanitaria e ti chiede: di dove siete? Ah, un bel posto davvero. Ci vive ancora mia nonna, eccetera eccetera.
Come nel caso del bisnonno, qui i legami trasversali – gli antenati, gli affini – sono importanti e ben noti. Io sono una di fuori (vengo da queste parti solo da pochi decenni, eh) quindi incontro una persona o l’altra e mi dico, simpatica questa signora, ma che burbero questo fabbro, davvero piacevole la casa dei nostri vicini, con la veranda che dà sui boschi. Semplice, no? Neanche per idea.
Io faccio figuracce da non dirsi quando saluto cordialmente uno che faceva dispetti ai miei vecchi, o scambio ricette con la vicina che rubacchiava le mele a una mia lontana parente. Quindi nei rapporti umani locali ho imparato a usare un certo riserbo: non si sa mai quali malvagità segrete si annidino negli alti rami delle parentele, e quale dei tuoi avi si rivolterebbe nella tomba se tu facessi amicizia con uno che sessant’anni fa ha cercato di rubargli la fidanzata.
E tuttavia, sodali o parenti o vicini o compagni di bar o colleghi di lavoro, amichevoli o ostili, tutti gli abitanti del paese sono legati tra loro a doppio filo.
L’albero e le radici
C’è un libro molto bello di Robert Macfarlane, Underland: un saggio che esplora gli strani e importantissimi mondi nascosti sotto i nostri piedi. Particolarmente rivelatore, oggi che vivo in un luogo in cui tra l’abitato e le zone verdi le case sono in meravigliosa minoranza, è lo sguardo nuovo sulle radici. Un albero, per chi vive in città, è un oggetto più o meno decorativo. Ha una corteccia fatta per le iniziali degli innamorati, dei rami per i bambini che si arrampicano, una chioma di foglie che è bella, sì, ma che poi tocca rastrellare e togliere in autunno, e delle radici che hanno una sgradevole tendenza a spaccare asfalti e selciati.
Per la gente di campagna un albero del bosco è una ricchezza, da tagliare – a ritmi controllati – per farne legna da bruciare, o assi da costruzione, o essenze per manufatti pregiati.
Se è un albero da frutto, è un amico e un collaboratore. Viene curato, innestato, potato, osservato in ogni fibra per controllare che cresca sano, che non venga attaccato da insetti e muffe, che non soffra dei caldi precoci o dei geli fuori stagione, o non sia mai delle grandinate.
Per uno studioso alla Macfarlane un albero è ancora un’altra cosa. Non è soltanto un fusto che si alza dal terreno, con una corona di verde che dà ombra agli uomini e riparo agli uccellini. Tanto si allarga in alto lo splendore del fogliame, tanto si dirama in basso la zona delle radici. Gli ecologi sanno da tempo che le parti aeree delle piante sono in grado di scambiarsi messaggi; ancora più ricco è lo scambio tra le radici, che segnalano tra loro dati vitali sulle caratteristiche del terreno, sull’umidità e l’acidità locale, sulla presenza di parassiti, o di nemici minerali vegetali animali o umani.
Un bosco, una macchia di alberi, non sono solo un interessante colonnato di tronchi.
Sono un organismo vivo, collegato alla base da una rete capillare e vastissima, capace di captare il mondo, di scambiarsi le notizie rilevanti, di reagire in modo efficace. Nei suoi elementi singoli, e nel suo ecosistema globale.
Ma cosa significa avere delle radici? Adesso lo so!
E così, in un certo senso, funziona il mio piccolo paese. Con le radici ben aperte, che si sfiorano tra loro, si nutrono della stessa terra e fioriscono o decadono insieme.
Riciclando i tronchi caduti, colonizzandoli e utilizzando le loro risorse nella nuova vita del bosco. Occupando saggiamente gli spazi lasciati liberi, con nuovi getti e nuove essenze, perché il bosco continui a prosperare. Sapeva queste cose anche il saggio Arbasino, che in delizioso libretto dedicato all’arte in America descrive con ammirazione i nuovi, ricchissimi, modernissimi musei americani.
Aggiungendo però che vengono costruiti sulla terra vergine; mentre i nostri musei, certo più̀ smandrappati e all’antica, sorgono su strati e strati di storia millenaria, e si sente.
In un’opera di Silvio D’Arzo, Casa d’altri – che Montale ha definito ‘il racconto perfetto’ – c’è la storia di una vecchia che capita in un paesino di montagna e campa lavando panni al fiume; ma non ha una casa sua, né una famiglia, né un vero mestiere, e la gente del paese la considera con so- spetto. ‘Non ha un morto’, si dicono tra loro.
Non ha neanche un morto, a dare solidità e radice alla sua vita nel paese.
Capisco, adesso, cosa significa avere delle radici.
Ormai è chiaro quanto sono importanti le radici nella nostra vita, e questo articolo di Elena Speciani ha aperto ancora di più gli occhi.
Nel n.129 de L’altra Medicina, affrontiamo questo tema sotto tanti punti di vista. Non puoi assolutamente perdertelo. Ti aspettiamo in edicola e online.