I miti fondativi della nostra fede tecnologia: la comodità
Di Enrico Manicardi
Il primo comandamento imposto da ogni religione è quello di porvi fede, e cioè di darvi un’adesione incondizionata tale da non metterla mai in discussione, nemmeno quando i suoi precetti si presentino come assurdi: “credo quia absurdum” (“credo perché è assurdo”) ricordava la locuzione latina attribuita all’apologeta cristiano Tertulliano.
Vale lo stesso per la Tecnologia.
La Tecnologia non è mai in discussione, e tutti vi credono e vi confidano ciecamente.
Persino coloro che si dichiarano critici non la mettono mai in gioco in sé: se la prendono magari con questo o con quell’altro dispositivo; si lamentano della sua scarsa efficienza; parlano di tecnologia “verde”, “sostenibile”, “a basso impatto ambientale” (il festival degli ossimori è sempre aperto quando si parla di Tecnologia).
Nessuno la condanna come processo pervasivo che condiziona pesantemente la vita di tutti. Anzi, quando scappa un’accusa feroce contro di essa, ecco che l’esternazione viene immediatamente depotenziata dalla giustificazione più comune, premessa o posposta alla dichiarazione incriminata: “Naturalmente, non ho alcuna intenzione di criticare la Tecnologia in quanto tale, sarebbe folle…”.
Eppure, a me sembra folle l’atteggiamento di chi voglia accettare per forza ciò che è inaccettabile piuttosto che quello di chi miri a rifiutarlo in toto.
E infatti, nessuno che concepisca il nazismo per quello che è, e cioè una tragedia, accoglierebbe mai l’idea di rivederne realizzato il governo sia pure in forma “verde”, “sostenibile”, o “a basso impatto totalitario”.
È la stessa generale ritrosia che proviamo verso il razzismo o l’omofobia. Davanti a questi orrori la condanna è per tutti univoca e senza mezzi termini; invece la Tecnologia, per quanto faccia contro di noi e contro le nostre vite, gode sempre di una particolare immunità e, come ogni altra nocività profusa dal mondo industriale (dall’inquinamento alla guerra), non è mai radicalmente sotto accusa.
Quel che ne consegue è sconsolante: anche di fronte all’esaurimento di tutto ciò che è vivo, naturale, reale, e al suo rimpiazzo con una tecno-esistenza artificiale nella Macchina, rifiutiamo di riconoscere quanto il nostro mondo attuale sia sempre più sterile, impoverito, vuoto.
E la Tecnologia, che supporta appunto questo confinamento separandoci via via da noi stessi e da ogni contesto naturale di riferimento (fino a farci concepire come possibile l’idea folle di una realtà “virtuale”, di una intelligenza “artificiale”, di un cibo “sintetico” e persino di un “transumanesimo”) viene immancabilmente difesa, giustificata, considerata irrinunciabile: si chiama tecnolatria, ed è una specie di affezione molto comune tra noi civilizzati.
Questa diffusa propensione a credere nella Tecnologia, a considerarla comunque salvifica e assolutamente necessaria, è retta quindi dal principio della fede.
E come ogni fede, anche la tecnolatria ha una sua teologia, la quale, al pari di ogni altra dottrina, trova le sua fondamenta in un potentissimo apparato simbolico che ne supporta il senso: un apparato modellato nel tempo su miti e luoghi comuni considerati incontrovertibili.
Sono diversi infatti i topoi su cui si regge l’intero programma di condizionamento alla fede tecnologica, ma almeno tre dei tanti miti che ne dettano la liturgia meritano di essere guardati in faccia, se non altro perché sull’analisi critica della loro essenza sia possibile provare a costruire una sorta di “ateismo” tecnologico che ci aiuti a considerare le cose per quelle che sono, e non per il loro carattere ideologico imposto dalla Cultura.
Si tratta del mito della comodità, di quello della neutralità della Tecnologia e del mito della sua immanenza. Oggi tratteremo del primo di questi tre, lasciando ai prossimi e futuri articoli l’esame degli altri due.
IL MANTRA DELLA COMODITÀ
Provando a essere pratici, e cioè cercando di evitare ogni disquisizione di carattere polemicamente filosofica, si potrebbe partire da una provocazione:
la Tecnologia è comoda!
Infatti, pur dando per ammesso e non concesso il fatto che la Tecnologia ci agevoli negli impegni della vita (fatto evidente), la questione della comodità tecnologica trascende la valutazione di quanto essa sia in grado di farci sentire a nostro agio attraverso i suoi prodotti, perché quel che un certo fenomeno comporta non sempre è decifrabile attraverso ciò che proviamo immediatamente, che può essere l’esito di una suggestione o dell’insorgenza di un sintomo.
Per come la vedo io, la questione della comodità tecnologica non verte dunque sul considerare quanto la Tecnica ci rechi materiale conforto, ma sul fatto di valutare se questo conforto sia salutare o dannoso.
In fondo, anche l’antidolorifico arresta subito la manifestazione del dolore, ma non ne toglie la causa.
Se ne vagliassimo la validità solo guardando a quel che proviamo una volta assunto (immediata scomparsa della sensazione di sofferenza) dovremmo adorare tutti i medicinali.
Invece sappiamo bene quanto la medicina sintomo-soppressiva sia deleteria a lungo termine, e quanto la sua capacità di agire sul sintomo pregiudichi la possibilità del nostro organismo di fare quanto utile per cercare di risolvere da sé il problema trasformatosi in malattia.
Ed è proprio questo il punto.
Facendo le cose per noi, la Tecnologia ci toglie la capacità di saperle fare; ci toglie il bisogno di saperle fare; ci toglie persino il senso di farle in piena autonomia. Nei fatti, proprio perché la Tecnologia è “comoda” e fa le cose per noi, ci rende sempre più dipendenti dalla Tecnologia, e quindi sempre meno autonomi.
E attenzione: autonomia è un sinonimo di libertà.
Detta in modo ancor più semplice, il prezzo che paghiamo per ottenere questa tanto reclamata comodità è altissimo: si tratta della nostra libertà.
Mentre ci coinvolge e ci conforma, mentre travolge le nostre sensibilità, le nostre intelligenze, le nostre relazioni e persino i nostri bisogni più naturali, la Tecnologia ci sottrae anche libertà. Lo fa pian piano, certo, ma costantemente, senza tregua;
al punto che diventiamo ogni giorno meno capaci di fare ciò che fino a ieri facevamo tranquillamente senza tecnologia.
Guardandoci attorno le cose si mostreranno limpidissime: non facciamo più niente con le nostre mani (le macchine lo fanno per noi); non facciamo più niente con le nostre gambe (ci sono i mezzi di locomozione che ci “teletrasportano”); non facciamo più niente nemmeno con la nostra testa (ci sono i computer).
Nel mondo di oggi, dominato dalla Tecnologia, non sappiamo più arrangiarci in nessun modo e smarriamo progressivamente ogni nostra naturale abilità di specie: non sappiamo più realizzarci utensili di uso comune; non sappiamo più costruirci un riparo; non sappiamo più cucirci addosso un vestito per la stagione fredda.
Nei corsi di questa sottile ma continua e devastante espropriazione siamo giunti fino al punto di non essere più in grado di riconoscere una pozza d’acqua potabile da una che non lo è; di non essere più in grado di procacciarci il cibo da soli.
Anzi, di non saper nemmeno più quale sia il cibo adatto alla nostra specie: coca cola? Nutella? McBurger? Pane? Kebab? Patatine fritte?…
Forse non ce ne rendiamo conto, ma abbiamo già perduto l’uso dei piedi: se ci togliamo le scarpe non siamo più in grado di camminare.
Insomma, stiamo diventando dei disabili. E più la Tecnologia invaderà la nostra vita diventando maggiormente comoda, più noi ci ritroveremo incapaci di fare le cose più elementari, trasformandoci in beati e inconsapevoli portatori di handicap:
tutti dipendenti dal Sistema tecno-industriale che ci fornisce beni e servizi al posto delle nostre sottratte abilità di specie, e tutti conseguentemente più inclini all’accondiscendenza verso questo Sistema che ci apparirà ovviamente insostituibile.
Serve riflettere urgentemente su questa deriva. La Tecnologia sarà anche comoda, ma proprio perché lo è, essa si sostituisce a noi sostituendoci.
Quella che chiamiamo comodità, dunque, è gravemente nociva alla natura umana.
Se siamo stati convinti del contrario è solo perché viviamo esistenze ormai così insulse e vacue, così recluse nella libertà, così lontane dalla felicità, così piegate dallo stress e dallo sfiancamento continuo dovuto al bombardamento quotidiano di obblighi, impegni e divieti, che l’idea di arrivare stremati a casa la sera in auto, salire al terzo piano con l’ascensore, accendere la luce con un comando vocale, mangiare cibi preconfezionati e spingere un bottone magico per entrare nel Paese di Bengodi della televisione, ci consente di tirare un sospiro di sollievo.
Ci fa credere che questo sollievo sia l’essenza della libertà, mentre invece – per parafrasare Freud sul discorso dei sintomi – il sollievo (esattamente come lo sfogo o la rimozione) non è mai l’essenza della libertà, e quel che resta di afferrabile nella nostra vita, una volta imbottita di sollievi, è solo la capacità di svuotarsi ancora maggiormente e di reclamarne di nuovi.
L’idolatria della comodità è insomma una manifestazione morbosa che ci getta nel circolo vizioso della dipendenza dalla Tecnologia.
Del resto, anche l’idea di un mondo totalmente affrancato dallo sforzo resta una pura follia che non coincide per nulla con la prospettiva di un’esistenza davvero soddisfacente.
Quando, nel 1995, l’attore americano Christopher Reeve (celebre per avere interpretato il ruolo di Superman nell’omonimo film di Richard Donner) rimase completamente paralizzato a seguito di una caduta da cavallo, nessuno riuscì ad attribuire a quell’evento il significato di un’esperienza auspicabile.
Anche volendo tener conto delle indubbie possibilità economiche dell’attore, che gli avrebbero consentito di dotarsi dei migliori supporti tecnologici e assistenziali esistenti, tutti guardarono a quell’occorso come a una terribile disgrazia.
E non vi è dubbio che lo fosse!
Perché, per quanto si sia appunto continuamente spinti a pensare il contrario, la nostra natura di animali senzienti non si realizza nell’inattività e nell’inazione, ma nello sforzo, nella responsabilità, nell’impegno personale.
La nostra natura di animali senzienti si realizza cioè nell’essere sempre presenti a noi stessi, nel saper provvedere alle nostre necessità e a quelle dei nostri cari;
si realizza nel camminare, nel correre, nello scherzare; si realizza nel guardare, nell’ascoltare, nell’annusare, nel gustare, nel toccare, nel pensare, nell’amare;
si realizza nel fare scelte e nell’assumerci le relative responsabilità, e anche nel ricordare, nel muoverci nell’ambiente circostante, nell’imparare a conoscerlo, nel cadere a terra e nel rialzarci in piedi.
Tutte esperienze reali che la Tecnologia tende a eliminare dalla nostra vita.
L’idea che per stare bene si debba vegetare in una specie di stato di morte apparente, coccolati da una tecnologia che si occupi di ogni nostra necessità, è soltanto una pura distorsione, una perversione.
Ed educandoci a confondere la comodità con l’inazione, la Tecnologia c’infila proprio in questa perversione: una perversione che urge smascherare e schernire con forza.
Esattamente come ha fatto Matt Gröening, inventore de I Simpson il quale, parodiando l’illusione tecnologica di una vita consumata nell’inerzia più assoluta, ha riposto nel personaggio di Homer la caricatura di questa perversione.
L’aspirazione di Homer Simpson a vivere immobilizzato in un divano con una grande cannuccia in bocca per ingozzarsi di birra senza dover opporre alcun minimo sforzo vitale, è ciò che sbeffeggia la quintessenza della comodità tecnologica e, insieme, denuncia il feroce progetto di disumanizzazione che sta a monte del processo di artificializzazione della nostra esistenza.
Le risate che suscitano le immagini di Homer alle prese con la sua non-vita sul “divano dei desideri” ci dicono una cosa soltanto: che l’inazione è semplicemente ridicola.
Proprio com’è ridicola la vicenda di quella squadra di calcio che una celebre barzelletta voleva ultima in classifica perché era solita giocare le sue partite senza avvalersi delle fatiche del portiere: era stato sostituito da un videocitofono…
La vita reale, e cioè quella fatta di esperienze reali, di intelligenze e sensibilità reali, di cibo genuino, di amore vero e di umanesimo senza “trans” e senza “post”, non è una disavventura da spettatori passivi o da consumatori seriali insoddisfatti;
tanto meno è uno svuotamento interiore continuo sublimato dal possesso, dal denaro, dal successo, dal potere o dalla triste euforia posticcia assicurata dall’acquisto di un nuovo gadget o dall’immersione desolante in uno sballo.
Maturarne una precisa consapevolezza potrebbe non essere indifferente alle ragioni della nostra libertà e della nostra felicità.
Articolo pubblicato sul n. 126 de L’altra medicina magazine