Messo all’indice per le sue ricadute negative sulla salute e sull’ambiente, l’olio di palma è stato ridotto nei cibi di produzione industriale, dove un tempo abbondava. Alcuni produttori continuano però a utilizzarlo e ne difendono le qualità. Ecco un breve percorso per conoscerlo meglio.
Un ingrediente troppo diffuso
Compare a nostra insaputa in numerosi cosmetici, nei dentifrici, nello shampoo e in moltissimi altri prodotti industriali. Senza contare che fino a pochi mesi fa dominava in una moltitudine di cibi confezionati: dalle merendine, alle fette biscottate, ai dadi da cucina.
Uno dei motivi di questa sorprendente diffusione è legato al fatto che le palme per la produzione di olio richiedono un impiego di fitofarmaci relativamente modesto e hanno un rendimento molto elevato: fino a 8000 chili di olio per ogni ettaro coltivato, rispetto agli 800 chili del girasole, ai 750 chili dell’olio d’oliva e ai modesti 159 chili del sesamo. Le criticità, però, non mancano. La richiesta di olio di palma è in continua crescita, soprattutto nei paesi in fase di espansione economica e in pochi anni la produzione è giunta ai vertici delle classifiche dei grassi più usati nel mondo.
Primo lato oscuro: l’emergenza ambientale
Le coltivazioni di palme da olio invadono gli spazi delle foreste tropicali, provocando la progressiva distruzione di molte specie viventi, vegetali e animali. Un fenomeno che compromette la fertilità dei terreni e aumenta la produzione di CO2 , accelerando i mutamenti climatici anche nelle aree geografiche dove viviamo, con ricadute negative sul nostro benessere.
La “Tavola rotonda” fatica a decollare
Il miglioramento dei processi di produzione dell’olio di palma è un obiettivo primario di molte associazioni ambientaliste. Già dal 2004 il WWF partecipa all’organizzazione RSPO (“Round Table on Soustainable Palm Oil”), una “Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile” che ha messo in rete coltivatori e industrie per supportare e certificare una produzione sostenibile.
Finora, però, solo il 15% dell’olio in circolazione è certificato con il marchio RSPO, senza contare che secondo fonti attendibili, alcune grosse imprese non applicano i disciplinari in modo trasparente.
Gli aspetti nutritivi
L’olio di palma ha aspetti problematici anche dal punto di vista nutritivo. Pur essendo vegetale, contiene, infatti, ben il il 48% di acidi grassi saturi, non molti meno di quelli del burro, che ne fornisce il 60-63%. Rispetto a quest’ultimo, ha una concentrazione quasi doppia di acido palmitico, sotto osservazione per le potenzialità aterogene. L’effetto negativo di questa sostanza è stato ridimensionato da diverse ricerche, tuttavia il consumo di olio di palma, andrebbe calcolato all’interno del 7-10% di grassi saturi raccomandati dai LARN (Livelli di assunzione di nutrienti consigliati per la popolazione italiana) .
Tanto più che, secondo i dati dell’EFSA (Società Europea per la Sicurezza Alimentare), il processo di raffinazione può originare glicidolo esterificato, una sostanza dannosa che nell’olio di palma sembra essere presente in concentrazioni più elevate rispetto a quelle rilevate in altri oli di semi raffinati.
Utilizzare frequentemente alimenti che lo contengono può quindi sbilanciare l’ equilibrio, specialmente nella dieta di stile occidentale, ricca di cibi di origine animale, farine raffinate e zucchero, che, insieme all’olio di palma raffinato, formano un connubio dalle potenzialità infiammatorie, tutt’altro che raccomandabile.
I motivi del suo impiego
Ma perché allora se ne usa così tanto? Oltre al costo modesto e al risparmio di risorse energetiche che consente, l’olio di palma ha peculiarità molto vantaggiose dal punto di vista tecnologico.
Solido fino a 35 gradi, è capace di amalgamarsi alle particelle di olio presenti in altri ingredienti, per esempio noci e nocciole, svolgendo un effetto emulsionante che dona una piacevole consistenza cremosa, senza la necessità di usare altri additivi. Resiste al calore e conferisce ai prodotti da forno la friabilità necessaria per renderli gradevoli. In più, si conserva bene. Il suo impiego ha quindi permesso di sostituire agevolmente quello dei grassi idrogenati.
Così, questi ingredienti poco naturali, incriminati, fra le altre cose, per la presenza dei nocivi acidi grassi “trans” sono progressivamente spariti dalle etichette, sostituiti, nell’elenco degli ingredienti, dai “grassi vegetali”.
Nel 2014, poi, la legge europea ha imposto di eliminare questa indicazione generica e di precisare ogni specifico grasso presente nei cibi industriali, rendendoci più consapevoli della presenza dell’olio di palma e critici verso i prodotti che lo contengono.
“Senza olio di palma”: non garantisce la qualità
Oggi numerosi produttori hanno rinnovato i cicli di produzione e lo slogan “senza olio di palma” spicca su molte confezioni come un fiore all’occhiello.
Ma è meglio non lasciarsi ingannare. L’esclusione di questo condimento non è sufficiente a garantire la qualità, che dipende dall’insieme degli ingredienti. Dolci e prodotti da forno, per esempio, compensano talvolta la riduzione dei grassi con un eccesso di zucchero e farine molto raffinate. Oppure, possono risultare troppo ricchi di grassi raffinati, come soia, o girasole, che in quantità elevate non sono privi di controindicazioni.
Quindi, che facciamo?
Occorre poi tenere presente che la produzione di questi ultimi oli può comportare l’impiego di superfici agricole fino a sei volte superiori a quelle necessarie per l’olio di palma, un maggiore uso di fitofarmaci e l’impiego di piante geneticamente modificate.
Trovare la strada giusta non è quindi scontato: la scelta migliore, anche se più difficile da praticare, sembra quella di concentrarsi su equilibrio, moderazione e qualità delle materie prime, senza cercare in un unico ingrediente il capro espiatorio.