Da febbraio, all’ospedale Bellaria di Bologna partirà, per la prima volta in un ospedale italiano, la sperimentazione di una pratica meditativa che fa parte della tradizione tibetana, il Tong Len, applicata ad alcuni pazienti oncologici. La sperimentazione sarà condotta dall’équipe medica del reparto di Psicologia clinica, guidata dal dottor Gioacchino Pagliaro.
La sperimentazione riguarderà un gruppo selezionato di 80 pazienti: 40 di loro affiancheranno la pratica meditativa alle normali terapie mediche, mentre gli altri 40 continueranno le normali terapie. I due gruppi saranno monitorati nei mesi in cui durerà la sperimentazione e poi, a una distanza di tre e cinque anni, i pazienti coinvolti verranno sottoposti ad analisi del sangue e dello stato psicofisico per valutare le variazioni e le differenze tra i due gruppi.
La notizia è ovviamente di quelle buone, soprattutto per noi, che da anni sosteniamo la necessità di affiancare alle cure mediche le pratiche meditative. È soprattutto il segnale di apertura del mondo della medicina a renderci felici, segnale che ci auguriamo sia seguito da sempre più strutture, con la speranza che vengano finalmente infrante le barriere di diffidenza che spesso caratterizzano lo sguardo del mondo accademico verso questo genere di approccio alla cura e al benessere psicofisico.
Meno bene, però, accogliamo la divulgazione giornalistica di questa nuova sperimentazione, che come spesso capita in Italia è caratterizzata da una disinvolta superficialità nel dare la notizia e nel banalizzare le pratiche millenarie di tradizioni e da uno sguardo che, più che interesse, tradisce quel particolare tipo di indulgenza bonaria con cui di solito ci rivolgiamo ai ragazzini. Ma se nel loro caso è uno sguardo affettuoso, in questo sembra piuttosto mal celare una certa, fastidiosa, superiorità.